TITOLO: Lo Zen alla guerra, una documentazione sul ruolo svolto dal buddhismo zen a sostegno del militarismo giapponese
AUTORE: Brian Victoria
CASA EDITRICE: Sensibili alle foglie
PAGINE: 359
COSTO: 18,20 €
ANNO: 2001
FORMATO: 21 cm X 14 cm
REPERIBILITA': Reperibile su internet
CODICE ISBN: 9788886323871
Premessa
importante: io non conosco nulla, e nulla mi interessa, dei dettami
della dottrina zen nel buddhismo. Di certo chi, invece, ne ha
conoscenza potrà ancor di più apprezzare questo saggio, che io ho
trovato interessantissimo perché permette di capire bene il supporto
che la religione diede al militarismo e all'espansionismo imperiale
giapponese.
L'autore
è esso stesso un prete buddhista, quindi non è tacciabile di voler
infangare la sua stessa religione, semplicemente negli anni 70,
vivendo in Giappone, voleva schierarsi contro la guerra in Vietnam.
Il suo maestro lo sconsigliò, in quanto, gli disse, “i preti non
si occupano di politica”, a questo punto l'autore iniziò ad
interessarsi a come il buddhismo si “interessò” alla politica
nel periodo storico che va dal 1868 al 1945. Scoprendo che il
buddhismo giapponese non solo si interessò di politica, ma andò ben
oltre, appoggiando totalmente la dittatura fascista imperiale e le
sue guerre di aggressione.
Nella
prefazione l'autore lancia l'ipotesi che Hitler fu influenzato, nello
scrivere il Mein Kampf, anche da come i giapponesi si identificassero
nello Stato, annullando l'individualismo. L'idea tedesca di Hitler
dello Stato somigliasse allo Yamato-damashii, cioè lo “£spirito
del Giappone”. Sia questa ipotesi dell'autore che tutto il saggio
nascono dalla sua preoccupazione che morti i “cattivi” della
seconda guerra mondiale si pensi che il male sia morto con loro.
Mentre il timore è che se le idee che permisero il “male” non
vengono sconfitte, prima o poi, ci ritroveremo di fronte il male.
L'autore
inizia spiegando come era organizzato il buddhismo giapponese
nell'era Tokugawa, quella precedente all'era Meiji. Per consolidare
il proprio potere Tokugawa (e i suoi successori) creò il buddhismo
istituzionalizzato, in cui tutti i templi erano sotto il controllo
dello Stato, così i preti diventarono quasi dei funzionari
governativi.
Quindi
si passa al periodo della Restaurazione Meiji, e al passaggio del
buddhismo dal potere dello Stato Tokugawa a quello dell'Imperatore
Meiji. Nella nuova costituzione Meiji era prevista la separazione tra
buddhismo e shintoismo (parziale unione creata durante da Tokugawa),
trasformando l'ultima in religione di Stato (lo shinto di Stato).
Quindi,
nei primi anni dell'era Meiji, il buddhismo fu avversato, in quanto
non era la “vera” religione autoctona, cioè lo shintoismo. La
religione era posta sotto l'autorità “dell'ufficio dei riti”
(jingi kyoku), ma dato che questo ufficio era retto da fanatici
sostenitori della “cultura nazionale” (kokugaku) il buddhismo era
diventato un nemico da eliminare, per esempio vennero chiusi migliaia
di templi e spretati migliaia di prelati. I vertici del buddhismo
istituzionale reagirono in tre modi a questa situazione di pericolo
per la loro religione: sovvenzionarono il nuovo Stato Meiji (a corto
di finanze); si schierarono subito col nuovo fermento nazionalista;
scatenarono una campagna anticristiana (nota come “rifiuti del male
ed esaltazione del bene”, “haja kensho”).
Grazie
anche ad alcune sommosse di protesta di cittadini contro la
repressione verso il buddhismo, oltre alle tre azioni sopra
descritte, il governo Meiji rivedette la stretta sul buddhismo.
Di
conseguenza, nel 1889), i vertici dell'ex buddhismo istituzionale
cercarono di creare il “nuovo buddhismo” (shin bukkyo), per
dimostrare al governo Meiji che il nuovo buddhismo, nonostante fosse
nato all'estero, poteva essere di supporto sociale ed economico al
nuovo Giappone nazionalista. Infatti, per prima cosa, il nuovo
buddhismo si impegnò materialmente ed economicamente nella
colonizzazione dell'isola di Hokkaido, formalmente giapponese, ma
realmente non controllata fino ad allora.
I
vertici del nuovo buddhismo si schierano anche in favore della
modernizzazione forzata del paese imposta dalla Restaurazione Meiji,
per dimostrare che il buddhismo non era contrario alla scienza
moderna, diventata uno degli imperativi della modernizzazione.
Il
nuovo buddhismo poté dare prova della propria fedeltà ed utilità
all'imperatore Meiji con la prima guerra sino-giapponese del 1894-95.
Numerose furono le attività dei vertici buddhisti giapponesi, ma
anche dei singoli monaci o templi, in favore della guerra e in
supporto dei famigliari dei soldati deceduti, oltre come missionari
buddhisti giapponesi nella Cina conquistata (già buddhista...).
Nessuna organizzazione buddhista si mosse per il pacifismo e contro
la guerra (tranne uno sparuto gruppo), anzi, si esaltava il buddhismo
come spinta e risorsa per vincere la guerra. Grazie al buddhismo,
predicavano gli stessi monaci, l'esercito e il Giappone avrebbero
affermato la propria superiorità sulla Cina, e la superiorità del
buddhismo giapponese su quello del resto dell'Asia. In particolare i
monaci buddhisti enfatizzavano l'utilità della dottrina zen per
avere soldati migliori, che combattessero “senza il proprio io”.
Tutto il clero buddhista fino al 1945 si identificava in questi 5
punti (riporto integralmente dal libro):
1 Il
Giappone ha il diritto di perseguire come meglio crede le proprie
ambizioni nell'ambito del commercio e degli affari;
2 Se
un qualsiasi pagano (jama jedo) proveniente da un qualsiasi paese
interferisce con tale diritto merita di essere punito per aver
ostacolato il progresso dell'intera umanità;
3
tale punizione verra eseguita con il sostegno pieno ed incondizionato
delle religioni del Giappone, perché essa non avrà altro scopo che
di assicurare il trionfo della giustizia;
4 I
soldati, nell'eseguire la punizione con il suggello della religione,
devono offrire la propria vita allo Stato senza ombra di esitazione o
di rimpianto;
5
Svolgere il proprio dovere verso lo Stato sul campo di battaglia è
un atto religioso.
Dopo
la vittoria contro la Russia nel 1905 si potevano sommare questi
altri 3 punti (riporto):
1 Le
guerre condotte dal Giappone non solo sono guerre giuste, ma di
fatto, sono espressione della compassione buddhista;
2
Partecipare alle guerre del Giappone e combattere fino alla morte è
un'occasione per pagare il debito di gratitudine sia al Buddha che
all'Imperatore;
3
L'esercito giapponese è formato da decine di migliaia di
bodbisattva, sempre pronti all'estremo sacrificio.
In
particolare la dottrina zen era considerata fautrice di ardore in
battaglia e cieca obbedienza verso i superiori. Sawaki Kodo
(1880-1965) fu uno dei preti zen più impegnati in questo durante la
guerra. Kodo, che combatté nella guerra russo-giapponese, fu uno dei
maggiori fautori dell'unità fra zen e guerra, impegnandosi
attivamente a favore del nazionalismo e del colonialismo imperiale
giapponese. Per Kodo, ed in seguito un altro importante esponente
come D. T. Suzuki, ad uccidere non era la volontà del soldato
buddhista (che non avrebbe potuto proprio in quanto buddhista), ma
l'omicidio era compiuto indipendentemente dalla volontà
dell'individuo, così lo zen trascende la ragione. Ecco uno dei
pensieri di Kodo su come si dovevano comportare i soldati: “Bisogna
obbedire agli ordini dei propri superiori, a prescindere dal loro
contenuto. E' così facendo che diventerete all'istante fedeli
servitori dell'Imperatore e perfetti soldati”.
Un
altro importante maestro zen, Rinzai Nantembo (1838-1925), riguardo
alla vita e alla morte affermava: “A parte lealtà e dovere, vita e
morte non esistono!”.
Anche
Nantembo era un fervente nazionalista e sostenitore dell'esercito.
Ci
fu, comunque, una sparuta quantità di preti buddhisti contrari al
nazionalismo e al colonialismo,ed avversi all'appoggio che il clero
dava allo Stato, furono chiamati “preti buddhisti radicali”.
L'episodio più famoso che li vide protagonisti fu “l'alto
tradimento” (taigyaku jiken) del 1910, in cui una 30entina di
persone (di cui 3 preti buddhisti radicali) tentarono una
cospirazione per uccidere alcuni membri della famiglia imperiale.
Furono tutti arrestati, 24 condannati a morte, tra cui il leader del
gruppo, il prete Uchiyama Gudo. L'autore dedica a loro un capitolo
con le loro iniziativa a favore della popolazione povera e dei
diritti dei contadini sfruttati. Questa, seppur minima e labile,
opposizione di una sparuta minoranza di preti buddhisti spinse i
vertici di tutte le sette a dimostrare in tutti i modi la loro
fedeltà all'imperatore, e la fedeltà del buddhismo allo Stato.
A
questo punto l'autore entra nel dettaglio del tema del saggio, con la
seconda parte dal titolo: “Militarismo giapponese e buddhismo”.
La
vittoria del Giappone contro la Russia generò un dibattito interno
sui motivi della superiorità nipponica. Tutti concordarono che fosse
stato lo “yamato-damashii” (lo spirito giapponese”) a dare la
forza al nuovo Giappone di sconfiggere gli occidentali. Per Shaku
Soen e Nukariya Kaiten, due esponenti di spicco del “nuovo
buddhismo”, era lo zen a creare lo “spirito giapponese”, per il
quale il soldato (ma non solo) giapponese non esitava a sacrificare
la vita. Il bushido, per questi intellettuali buddhisti, riviveva
nell'era Meiji (e sotto i successivi imperatori) e il buddhismo era
stato elaborato a partire dalle dottrine zen. Arai Sekizen, uno dei
capi della scuola Soto Zen (e abate del tempio di Sojiji) fece questa
dichiarazione nel 1925: “Il buddhismo non si oppone assolutamente
alla guerra... la pace è l'idelae naturale dell'uomo. E' il sommo
ideale dell'uomo. Il Giappone è amante della pace e quindi, anche se
entra in guerra, sarà sempre una guerra per la pace...”.
Alla
fine degli anni 20 il buddhismo istituzionale appoggiava totalmente
l'espansione militare giapponese. In tutte le zone conquistate dai
giapponesi furono aperte missioni di preti buddhisti giapponesi,
tutte le sette parteciparono a questa “evangelizzazione”, tanto
che alla fine della guerra le missioni erano centinaia. Ovviamente lo
scopo non era aiutare le popolazioni conquistate, ma suscitare ,
tramite la presenza di una figura famigliare come un monaco
buddhista, la lealtà verso l'imperatore. Inoltre quasi tutte queste
missioni fungevano anche come centro di spionaggio per catturare i
partigiani locali, oltre a dare supporto logistico alle truppe
d'occupazione giapponesi.
Nel
1931 fu fondata la “Lega della gioventù per rivitalizzare il
buddhismo” (“Shinko bukkyo seinen domei”), che si prefiggeva di
non seguire le altre sette nel militarismo dello Stato. Erano
giovani, non appartenevano al clero ufficiale ed erano una esigua
minoranza, ma si schierano apertamente contro le sette del buddhismo
istituzionalizzato, il presidente della Lega era Seno Giro. La Lega
era favorevole alla pace mondiale, ad aiutare la parte più debole
della società e i contadini vessati dai nobili proprietari terreni e
dallo Stato, ma era anche con Hitler e i nazismo. Nel 1936 Seno fu
arrestato, e dopo mesi di interrogatori ammise le proprie colpe e
denunciò gli altri membri della Lega, che fu sciolta. La Lega fu
l'unica associazione buddhista che negli anni 30 si oppose al
governo, ci furono, però, anche singoli buddhisti che si schierano
contro lo Stato nipponico, contestandone le leggi. L'autore racconta
le loro storie di alcuni di loro: Ono Onyu, Kondo Genko, Takenaga
Shogan, Daiun Giko.
Il
successivo passo dei leaders buddhisti, dopo aver appoggiato tutte le
politiche dei governi, fu la nascita del “buddhismo secondo la via
imperiale” (kodo bukkyo). In pratica la sottomissione di una
religione, formulata in termini dottrinali, all'imperatore, che era
la guida di un'altra religione, lo shinto. Nel capitolo l'autore
riporta gli interventi dottrinali dei leaders buddhisti dell'epoca a
sostegno del buddhismo secondo la via imperiale. Uno dei precetti più
importanti, oltre alla sacralità ed inviolabilità dell'imperatore,
era l'obbligo alla cieca obbedienza verso gli editti imperiali, che
diventavano obblighi religiosi.
A
questo punto si poneva il problema, per un buddhista, di giustificare
e sostenere le guerre (e quindi le uccisioni di persone e animali)
compiute dallo Stato giapponese. Vengono riportati sia gli scritti
che gli autori di questa dottrina, tutti preti buddhisti di alto
rango. Furono due studiosi zen, Hayashiya Tomojjiro e Shimakage
Shikai, nel 1937 a stilare queste dottrine pro guerra nel saggio “In
che modo il buddhismo vede la guerra”.
Semplificando
i concetti “buddhisti giapponesi” a favore della guerra erano:
il
buddhismo non condanna la guerra, dipende se la guerra è giusta o
ingiusta;
quando
una guerra si prefigge di realizzare le mete del buddhismo è giusta;
salvare
gli esseri senzienti e guidarli sulla via del buddhismo è una cosa
giusta, ed è all'imperatore del Giappone che spetta questo ruolo di
guida;
dove
l'imperatore vede ingiustizia può anche usare la guerra per
interrompere l'ingiustizia;
le
uccisioni in guerra sono un passaggio inevitabile per creare una
compassione più forte;
le
guerre promosse dal buddhismo mirano a promuovere la perfezione dello
Stato e del singolo individuo;
se
gli individui fossero perfetti non si sarebbero guerre (!!!);
quando
l'imperatore fa una guerra è per eliminare le guerre;
la
guerra è utile anche al nemico, in quanto gli fa capire i propri
errori.
Riporto
questa integralmente:
“Se
il livello di saggezza dei popoli di tutto il mondo aumentasse, le
cause che scatenano la guerra scomparirebbero e non ci sarebbero più
guerre. Se però, in un'epoca in cui la situazione è tale che
all'umanità è impossibile porvi fine, non v'è altra scelta se non
dar corso a guerre compassionevoli, portatrici di vita sia a se
stessi che al proprio nemico. Grazie alle guerre compassionevoli le
nazioni impegnate nel conflitto hanno modo di migliorare se stesse e
la guerra si estinguerà da sola”.
Le
scuole zen Rinzai e Soto ebbero un importante ruolo nel far nascere
lo zen dello Stato imperiale e lo zen del soldato. Il bushido era
nato dallo zen, quindi lo zen portava il soldato all'ardimento
militare. L'autore analizza gli scritti di Notone Inazo, Shaku Soen,
Fueoka Seisen, Nukariya Kaiten, Iida Toin, Furukawa Taigo, D.T.
Suzuki, Seki Seisetsu sul rapporto tra zen, bushido e ardimento
militare (tutto molto interessante).
Lo
zen permette di rinunciare alla vita senza problemi, vita e morte
sono indifferenti, inoltre lo zen insegna l'obbedienza assoluta verso
il proprio superiore, e che lo scopo del guerriero è solo di
distruggere il nemico, senza mai esitare. E' chiaro come sia la
filosofia giusta per creare il soldato perfetto, lo fu al tempo del
bushido, lo restava in quegli anni.
Uno
dei concetti base di tutti questi “studiosi” era che, come
scritto nel bushido, non è chi uccide con la spada ad uccidere, ma è
la spada ad uccidere. Il soldato non vorrebbe uccidere, ma il nemico
appare e fa di se stesso la vittima (…). In questo modo si
sollevava il soldato, o il giapponese in generale, da qualsivoglia
responsabilità di ordine morale, ed era una religione a farlo.
Contemporaneamente l'esercito imperiale sfruttava e sollecitava
questi scritti di studiosi religiosi. I manuali, l'addestramento, gli
ordini scritti e verbali erano improntati alla filosofia del bushido
e dello zen in battaglia. Un esempio sta nel fatto che nei manuali di
guerra per i soldati e gli ufficiali le parole “resa”, “ritirata”
e “difesa” vennero eliminate, solo l'attacco era considerato
lecito, oltre all'obbedienza cieca.
L'autore,
in quest'ottica, passa ad analizzare la storia del tenente colonnello
Sugitomo Guro, il militare ideale secondo lo zen, tanto che dopo la
sua morte fu dichiarato “Gunshin”, “Dio della guerra”.
Inoltre sono riportati e analizzati gli scritti del maestro zen di
Sugitomo, Yamazaki Ekiju, che ne forgiò lo spirito. Questi due
personaggi non furono gli unici maestri zen a propagandare lo zen
come arma militare. L'autore passa in rassegna, spiegandone le
attività, gli altri maestri zen che impegnarono se stessi, e la
propria religione, nello sforzo bellico: Hata Esho, Yamada, Reirin,
Kurebayashi Kodo, Hitane Jozan, Fukuba Oshu, Hrada Daiun Sogaku,
Masunaga Reibo.
Oltre
alla teologia zen e alla propaganda per la trasformazione del soldato
zen perfetto, in cosa si impegnarono materialmente le varie scuole
zen in favore della guerra?
Opere
di conforto interno in favore dei famigliari dei soldati deceduti in
battaglia.
Cappellani
militari in battaglia e la fondazione di missioni nelle zone
occupate.
Particolari
cerimonie religiose per assicurare la vittoria in battaglia, ma anche
per annientare l'America e l'Inghilterra.
La
raccolta di fondi per costruire mezzi militari.
La
formazione di istruttori per motivare i cittadini, specialmente i
lavoratori, trasformandoli in “guerrieri industriali”.
Infine
gli stessi preti zen accettarono di andare a lavorare nelle fabbriche
di armi, diventando essi stessi “guerrieri industriali”.
Il
primo capitolo della terza parte del libro fa una cosa poco consueta,
ma molto interessante, in saggi di questo tipo: riporta le
giustificazioni, le abiure, lo scarica barile e le mere arrampicate
sugli specchi degli stessi studiosi e preti buddhisti dopo la
sconfitta della guerra. Inoltre sono riportate dichiarazioni di
leader e studiosi buddhisti che anche dopo la guerra continuavano a
giustificarla, pur senza mantenere i toni da fanatismo imperiale.
Studiosi,
leader buddhisti e semplici preti che prima del 15 agosto 1945
facevano dichiarazioni e scrivevano articoli e libri con concetti che
si son letti nei capitoli precedenti del libro, dovettero in fretta
“ricollocarsi” nel nuovo Giappone democratico, passando da
militaristi a pacifisti.
Per
esempio D.T. Susuzi, pur ammettendo gli errori del buddhismo
giapponese nell'appoggiare il militarismo, scarica subito la colpa
sullo shintoismo, non assumendosi mai la responsabilità
dell'influenza che ciò che scrisse potesse avere avuto.
Solo
4 scuole buddhiste fecero dichiarazioni di responsabilità nello
sforzo bellico, e nessuna prima di 40 anni dalla fine della guerra,
cioè solo dal 1985 in poi (ricordo che questo saggio è stato
scritto nel 1997, quindi assunzioni di responsabilità avvenute in
seguito non possono essere state riportate).
L'autore
riporta le dichiarazioni di pentimento di queste 4 scuole, e fa delle
considerazioni su tutte le altre numerose e importanti scuole
buddhiste che (fino al 1997) si guardavano bene dallo scusarsi.
Ed in
questo (è una mia considerazione personale) i leaders e le scuole
buddhiste hanno ripetuto un comportamento identico agli altri gruppi
sociali, o di singoli individui, in Giappone, compresi governi e
politici: Nessuna scusa per i massacri o scuse tardive e non chiare.
L'autore
riporta e commenta anche gli scritti di uno dei pochi studiosi
buddhisti che, dopo la guerra, si pentì del proprio appoggio
religioso al militarismo: Ichikawa Hakugen.
Ichikawa
Hakugen è anche uno dei pochi intellettuali giapponesi ad aver
cercato di analizzare il, perché e il come successe ciò.
Sono
riportate anche le analisi di altri due studiosi, Hakayama Noriaki e
Matsumoto Shiro, sulle cause dottrinali che permisero di sottomettere
il buddhismo alla Stato.
Durante
la guerra lo zen venne usato non solo per addestrare i soldati in
battaglia, ma anche i “guerrieri industriali”, cioè i
lavoratori. Dopo la guerra, con l'avvento della democrazia e dei
diritti individuali, compreso quello sindacale (che durante il
fascismo giapponese era stato poco alla volta eliminato), le aziende
usarono lo “zen aziendale” per mantenere la presa sui lavoratori.
Le aziende negli anni 50 si resero conto che la scuola non inculcava
più le “virtù” come l'obbedienza e la sottomissione, quindi
fecero fare dei corsi zen ai dipendenti direttamente nei monasteri
zen, ovviamente i monasteri zen erano pagati per questi corsi. Un
altro scopo di questo addestramento zen era annullare
l'individualità, il lavoratore dovrà fare quello che fanno gli
altri, obbedendo agli ordini senza eccepire, rispettando le direttive
di chi è anche un solo gradino più in alto nell'organigramma
aziendale. In pratica vennero riproposti, seppur con minore fanatismo
ed intensità, i sistemi di indottrinamento usati prima della fine
della guerra verso i militari.
Si
potrebbe pensare che lo zen aziendale sia stato meno spietato dello
zen imperiale, in quanto non richiedeva il sacrificio della vita. Non
lo richiedeva esplicitamente, perché dagli anni 70 iniziò il
fenomeno tutto giapponese chiamato “karoshi”, “morte da
superlavoro”, oppure chi falliva nel proprio compito lavorativo si
suicidava.
Benché
il nuovo esercito di autodifesa giapponese sia improntato al rispetto
dei dettami di una costituzione pacifista, lo zen è ancora praticato
dai suoi membri, e insegnato nell'esercito. Anche in questo caso è
cambiata solo “l'intensità” dell'insegnamento.
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