TITOLO: La solitudine liberata, alla ricerca del sé... passando dal Giappone
AUTORE: Carla Ricci
CASA EDITRICE: Armando Editore
PAGINE: 176
COSTO: 18 €
ANNO: 2012
FORMATO: 21 cm X 15 cm
REPERIBILITA': Ancora presente nelle librerie di
Milano
CODICE ISBN: 9788866770305
L'antropologa Carla Ricci vive attualmente in Giappone, dove è ricercatrice presso il Dipartimento di Psicologia Clinica dell'Università di Tokyo.
Il tema del saggio non sono solo gli hikikomori (su cui
Carla Ricci ha già scritto due libri), ma la ricerca del sé
passando per il Giappone, come recita il sottotitolo.
Personalmente ho trovato sempre interessanti le parti
sulla società giapponesi e il fenomeno hikikomori, meno le parti di
carattere introspettivo/filosofico.
Una questione molto marginale del libro: ma in italiano
non esistono sinonimi di “esperire”? Perché sarà stato usato
una 50ntina di volte...
L'uomo ingannato da se stesso
L'autrice propone alcune sue riflessioni personali di
carattere filosofico sulla vita in Giappone. Differenziando, per
esempio, la cultura occidentale da quella giapponese in base ai
lasciti culturali del passato storico. Quindi l'occidente avrà una
“cultura della pietra” (monumenti, resti archeologici), mentre il
Giappone, quasi orfano di monumenti antichi, basa la sua cultura sul
territorio, “la cultura del legno”. In occidente la bellezza è
apprezzare ciò che è “scolpito nel tempo”, in Giappone è la
fugacità insita in ogni cosa ad avere valore.
Secondo la Ricci, in qualità di antropologa, il
Giappone è interessante in quanto ha già vissuto (e sta vivendo
ancora) i cambiamenti portati dalla globalizzazione e dalla
tecnologia.
Capitolo 2: Un sé e i suoi neuroni
Un capitolo in parte introspettivo (l'autrice spiega se
stessa) e in parte sui neuroni specchio, e quanto questi ci illudano
che le nostre scelte/comportamenti non siano influenzate dagli altri.
Sarò sincero, la parte del capitolo in cui Carla Ricci illustra la
sua scelta di non lasciarsi coinvolgere dalle cose (non possederle),
luoghi (non sentirvisi legati) e persone (saper interrompere i
legami) mi ha un pochino indispettito. Mi spiego, se uno ha dovuto
fin da ragazzino accudire un parente non autosufficiente come poteva
seguire, una volta adulto, la medesima filosofia? Avrebbe dovuto
mandare a ricovero il famigliare per fare nuove e stimolanti
esperienze di vita? Forse certe scelte, che l'autrice pare quasi
vantarsi di aver fatto (e che di certo sono state coraggiose e
meritorie) si è potuta permettere di farle. Non a tutti la vita, e
il senso di responsabilità verso la famiglia, ha permesso di fare
come lei e come lei suggerisce di fare.
Più interessante, e non irritante, la parte sui neuroni
specchio e l'influenza che hanno nei nostri rapporti col prossimo e
sulla libertà di scelta, il libero arbitrio.
Questo capitolo non ha un'attinenza diretta col
Giappone, ma è introduttivo ai capitoli successivi.
Capitolo 3: Il senso di nonsenso
I luoghi dell'esperienza
Hikikomori, fuga da una vita di finzione
Il senso universale
Il senso di purezza
E' in Giappone che i neuroni specchio, assieme ad altre
peculiarità sociali nipponiche (amaenokozo; una società gerarchica,
l'ambiguità di non prendere posizione per non sovrastare il
prossimo), creano un luogo dove il comportamento individuale è dato
dagli altri, senza che ciò sia considerata una costrizione. Anzi,
uniformare se stessi al gruppo è considerato un modo per migliorare
la società e, alla fine, se stessi.
Per spiegare questo concetto l'autrice fa riferimento
alla sua esperienza universitaria, sia giapponese che italiana.
Illustrando come gli studenti e i professori giapponesi nel lavoro di
gruppo (mentre in Italia è individuale) paiono “dover fare”
oppure “mostrare di fare” piuttosto che “fare per il vero
interesse di fare”.
In Giappone “produzione, competitività, consumismo”
sono così radicati da creare nuove consuetudini rendendole anche
indispensabili, come l'invenzione della cerimonia di divorzio.
Anche dal punto di vista tecnologico il Giappone
anticipa ciò che capiterà nel resto del mondo. In particolare
l'inquietudine e l'alienazione.
E' affrontata la questione hikikomori, un fenomeno in
cui l'individuo abbandona l'isolamento sociale (da solo in mezzo agli
altri) per rifugiarsi in un isolamento privato (lontano dagli altri).
Un atto che per una società di gruppo come quella nipponica è da
considerarsi fin sovversivo. Gli hikikomori sono circa l'1,15% della
popolazione (dati attuali), cioè un milione e 500 mila persone!
E non sono più solo di giovane età, questo 1,15% è
diviso in queste fasce di età (dati 2010 ministero della salute):
15,30% entro i 19 anni; 39% fra i 20 e 29 anni; 45,70% fra i 30 e 40
anni.
Le recenti crisi economiche hanno spinto anche le
persone adulte a diventare hikikomori, questo a causa della perdita
del posto di lavoro. Poi ci sono quelli che sono hikikomori fin da
adolescenti ed ora hanno 30 o 40 anni.
La società giapponese considera gli hikikomori delle
persone con problemi psicologici o dei semplici parassiti che vivono
sulle spalle dei genitori. Per l'autrice, in realtà, ciò non è
corretto, ma non sono neppure dei protestatari, essi non vogliono
opporsi alla società, ma dalla società giapponese si sentono
feriti, si sentono inadatti a farvi parte, quindi si rifugiano
nell'unico posto adatto per loro, una stanza.
E' ben spiegati il contesto sociale e famigliare che
porta i giovani a fare hikikomori. Perché oltre alla società, è la
stessa famiglia a trasformarli in hikikomori. Un padre che fugge dal
rapporto coi figli e la moglie diventando un hikikomori emotivo, e
una madre che fa sfoggio della “virtù” tutta giapponese della
sopportazione di questo stato di cose. L'hikikomori si limita a
trasformare questi comportamenti da hikikomori emotivo dei genitori
in un hikikomori fisico. L'hikikomori porta alle estreme conseguenze
la filosofia del “le cose sono così e non possono essere
cambiate”.
Dopo una serie di interessanti spiegazioni è riportata
l'esperienza scritta da un giovane hikikomori italiano.
Quindi viene illustrato cosa porta all'ingresso in
hikikomori: il senso di nonsenso.
Essendo un concetto un po' particolare evito di esporlo,
per evitare errori, leggete il libro.
L'autrice in questo capitolo cerca di spiegare anche
come opporsi agli abiti mentali che portano a fare hikikomori o che,
comunque, rendono la vita dolorosa/pesante. Concetti che non riporto
perché vanno un po' oltre le mie capacità di comprensione, troppo
filosofici e che non mi impressionano molto.
Capitolo 4: Camelie e un Samurai
Non ho colto appieno il senso di questo capitolo,
incentrato sulla vita di Miyamoto Musashi (1584?-1645), il più
famoso spadaccino giapponese.
L'autrice, analizzando gli scritti di Musashi (“Il
libro dei 5 aneli ed elementi”) cerca di entrare nella sua
psicologia, capire e spiegare cosa la muovesse, cosa pensasse.
Musashi per perfezionarsi non si legava a nulla e nessuno, era in
perenne ricerca della perfezione nei duelli. Pare quasi che Carla
Ricci tracci un parallelismo tra Musashi e se stessa, cioè quello
che riporta di se stessa nel secondo capitolo. Tralasciando che le
gesta di Musashi furono probabilmente enfatizzate in epoca successiva
per motivi di fanatismo nazionalista, mi sfugge il senso e
l'importanza della filosofia di vita di Musashi, e trovo questa sua
agiografia un po' irreale. Forse si è voluto esaltare la scelta di
solitudine di Musashi, e che quindi isolarsi (hikikomori) può essere
un aspetto positivo se è finalizzato verso uno scopo, e non solo
alla solitudine. Però trarre insegnamenti dalle gesta, non del tutto
certe, di un personaggio di 400 anni fa per affrontare l'alienazione
della società moderna mi pare un po' inefficace. Ammetto, comunque,
che io sono assai allergico alle ricette per vivere meglio, e che la
filosofia mi è estranea, certi “ragionamenti” fatico a capirli.
Capitolo 5: Amaenokozo. Un progetto ambizioso.
Carla Ricci approfondisce il tema, già toccato nei
capitoli precedenti, della libertà, di una società in cui sia
possibile una “libertà liberata”, concetto che spiega
largamente. Con questo obbiettivo prende ad esempio la società
giapponese di epoca Edo (Tokugawa 1603-1848), che realizzò “un
dinamismo psichico e un mondo artistico” che l'autrice chiama
“amaenokozo”. Anche in questo caso non riporterò ulteriori
concetti per evitare miei errori di interpretazione.
In questo contesto è ben illustrato il concetto di
“amae” e di “cattivo amae” (“warui amae”), la
degenerazione moderna dell'amae ideale del periodo Edo. Oggi il
“cattivo amae” ha trasformato le potenzialità di libertà
dell'amae in una prassi burocratica oppressiva. Il comportarsi come
detta il gruppo è fine a se stessa, una prassi che crea sofferenza,
stati d'animo d'infelicità, hikikomori.
In Giappone i problemi di comunicazione, in un mondo
globalizzato che fa della comunicazione uno dei cardini della società
moderna, creano più problemi che altrove. Non comunicare bene (o
come gli altri) riduce i rapporti umani, gli amici, può provocare il
bullismo scolastico (ijime), che porta a fare hikikomori.
Sta emergendo un fenomeno riguardante i bambini
giapponesi, che si sentono in colpa e si vergognano se non hanno
abbastanza amici con cui passare la giornata. Per esempio i bambini
che non hanno amici con cui passare la pausa pranzo (ergo io dico: W
la mensa scolastica italiana!) si chiudono in bagno per mangiare,
perché si vergognano di farsi vedere a pranzare in solitudine.
Fare hikikomori è un atto riguardante la difficoltà di
comunicare, e gli hikikomori dovrebbero essere recepiti come la
denuncia finale del malessere della nostra società basata sulla
comunicazione.
Capitolo 6: La solitudine liberata
In questo capitolo Carla Ricci cerca di esprimere il
suo punto di vista sul come accettare la solitudine, “la
solitudine liberata”. Non vuole dare ricette o consigli, vuole
esternare la sua idea.
Bisogna imparare ad accettare la solitudine, senza
isolarsi, ma accettarla. Poi non legarsi agli oggetti, non praticare
quelle attività sociali inutili, saper troncare i rapporti umani.
Io ho semplificato di molto i suoi concetti, però anche
leggendo il libro li trovo un po' esagerati.
Concordo che il consumismo (avere oggetti inutili,
spesso tecnologici) serve per riempire il vuoto che è dentro di noi,
stesso di scorso per le mode e gli hobby. Posso anche concordare che
taluni rapporti umani siano anch'essi finzione, ma senza tutte queste
“cose” si vivrebbe da semi eremiti. Secondo Carla Ricci
bisognerebbe “saper perdere tutto”, sembra quasi un dogma di una
nuova religione giapponese.
Capitolo 7: Viaggio di un maestro di Haiku
Cantico di coscienza universale
Questo capitolo è simile al quarto, solo che in questo
sono riportati gli scritti del poeta e grande viaggiatore Matsuo
Basho (1644-1694), primo creatore della forma poetica haiku. Sono
commentate la vita e le scelte di frugalità di Basho. La mia
valutazione è la medesima del quarto capitolo.
Comunque può risultare un capitolo interessante per chi
conosce ed apprezza la figura del poeta niponico.
Capitolo 8: Il magistrale insegnamento
Viene affrontato il rapporto madre/figlio, anche in
connessione con il fenomeno hikikomori. In pratica alcune madri
vogliono protrarre la gratificazione data dal rapporto di complicità
e dipendenza col figlio neonato anche quando questi è divenuto
adolescente, creando una dipendenza reciproca.
Capitolo 9: Camminando la vita
Capitolo come il quarto e il settimo, soggetto è
Shoichi Taneda (1882-1940), che cambio il suo nome in Santoka, poeta
e monaco questuante. Carla Ricci riporta e commenta la sua storia, i
suoi diari e le sue poesie haiku. La filosofia di questo capitolo è
la medesima degli altri due (ma anche di gran parte del libro),
l'esaltazione del “saper perdere tutto” e della solitudine
cercata e non subita.
Capitolo 10: Il buio di Tokyo
L'ultimo brevissimo capitolo sono delle considerazioni
dell'autrice sullo stato d'animo dovuto al cataclisma naturale e
tecnologico del 11 marzo 2011 (terremoto, tsunami, disastro
nucleare).
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