TITOLO: Hikikomori, narrazioni da una porta chiusa
AUTORE: Carla Ricci
CASA EDITRICE: Aracne
PAGINE: 194
COSTO: 13€
ANNO: 2009
FORMATO: 21 cm X 14 cm
REPERIBILITA': Reperibile su internet
CODICE ISBN: 9788854829022
Questo è il terzo saggio (secondo di Carla Ricci) in
italiano che affronta il fenomeno sociale hikikomori, direi che è il
più utile per capirne, oltre alle motivazioni, possibili vie
d'uscita. Va comunque letto, secondo me, dopo il precedente libro di
Carla Ricci.
Le motivazioni che portano un/una giovane (ma ci sono
anche molti soggetti adulti) a diventare o fare hikikomori sono di
carattere sociale: debolezza nello stringere relazioni, insicurezza,
perdita dell'impiego, vergogna, scarsità di motivazioni.
Oppure ci sono quelle di carattere scolastico: bullismo,
competizione scolastica, fallimento negli esami, rifiuto della
scuola.
Ma anche quelle famigliari: pressione per raggiungere
elevati livelli di istruzione, difficoltà di relazione, padre
assente, madre iperprotettiva.
Secondo Ogino Tatsushi il soggetto che fa hikikomori
soffre di un forte complesso di inferiorità, non riescono a
stabilire rapporti con il prossimo, in quanto avvertono la gente come
nemica, perché hanno la certezza che non li possa capire. Sempre
secondo Tatsushi sono tre le cause di hikikomori: conformismo della
società giapponese, pressione del sistema educativo, problemi di
comunicazione tra genitori e figli.
Questo secondo lavoro di Carla Ricci sugli hikikomori è
nato da un'attività diretta in Giappone, di studio e analisi del
fenomeno, in rapporto con terapeuti, esperti, famigliari e gli stessi
hikikomori. Inoltre l'autrice, parlando il giapponese, instaura un
rapporto diretto con tutte queste figure.
Stando a stretto contatto con i soggetti e l'ambiente
giapponese l'autrice nota acutamente che l'atto di un hikikomori di
chiudere una porta dietro a se per rinchiudersi presuppone un
significato diverso da quello che avrebbe in occidente. In Giappone
l'uso delle nostre porte occidentali sono relativamente recenti, e
non fanno parte della cultura giapponese, dove sono le pareti
divisorie mobili a delineare gli spazi. Queste pareti divisorie più
che chiudere gli ambienti hanno lo scopo di aprirli, e non sono
dotati di serratura. Nelle vecchie case giapponesi c'era solitamente
un solo ambiente con una porta “occidentale” con serratura, la
stanza chiamata “zashikiro” (la stanza prigione in tatami). In
questa zashikiro, fino alla seconda guerra mondiale, era legale
rinchiudere per tutta la vita i parenti malati di mente. Quindi
l'azione di un hikikomori di “chiudersi” è un atto “sgarbato”,
verso il quale il resto della famiglia non sa cosa fare e aspetta, ma
l'attesa della famiglia genera nel hikikomori rabbia verso chi non
sta comprendendo il suo atto di ribellione/protesta/auto
salvaguardia, e quindi si generano ulteriori problematiche di
carattere psicologico.
Nel primo capitolo si racconta la storia di Fumiko, una
28enne, e del suo stato di depressione e problematica famigliare, ma
non è lei che fa hikikomori, bensì il padre. Viene spiegato come in
Giappone la depressione non porta il soggetto a considerarla una
malattia da curare. Usando termini come “il mio ki è affondato”
(o bloccato/pesante/chiuso etc) si evita di considerare la
depressione una patologia, anche a causa del modo di pensare
giapponese che porta a dire “shikataganai” (non ci si può far
niente, non c'è niente da fare). Espressione che non va valutata
nell'ottica occidentale della rassegnazione, ma in relazione al ki.
Il secondo capitolo parte dalle dimissioni del primo
ministro Abe nel settembre 2007 per fare alcune considerazioni sulla
vergogna in Giappone. Le dimissioni di Abe da alcuni furono
considerate una fuga dalle responsabilità, quindi un atto che porta
vergogna, ma Abe ebbe un comportamento debole, cioè la
fuga/dimissione, come gli hikikomori, invece di scegliere il suicidio
per emendare la propria vergogna. Partendo da questo spunto di
pensiero popolare l'autrice analizza il rapporto tra vergogna e
suicidio/hikikomori. Il suicida espia la sua colpa, l'hikikomori
trova nella reclusione un riparo a quel sentimento insopportabile.
Il terzo capitolo si sofferma sull'angoscia dei
sararimen, che si trasforma poi in panico, per il viaggio in treno
che li porterà ad un'altra interminabile, dura ed alienante giornata
di lavoro. Questo panico da treno porta a fare hikikomori e,
talvolta, al suicidio.
Il quarto capitolo racconta l'unico incontro tra
l'autrice e Isao, un 30enne che fa hikikomori da 15 anni.
Il quinto capitolo illustra la “cultura del segreto”,
cioè himitsu, legato ai concetti di “ura” (ciò che sta dentro
ed è segreto) e “omoe” (ciò che sta fuori e di cui si può
parlare). Un segreto, “himitsu”, può essere sia una informazione
che si vuole celare che avere a che fare con la sfera personale. La
famiglia non è che si disinteressa del famigliare che fa hikikomori,
ma ha rispetto per il suo “himitsu” (segreto), del suo mondo.
Questo porta al modo di dire “nakatta koto ni suru”, “ciò che
non vogliamo sentire o vedere facciamo in modo che non esista
affatto”, che poi era il ragionamento che stava alla base del
zashikiro.
Chi fa hikikomori si reclude per nascondere il suo
“segreto”, e nessuno della famiglia si oppone, in ossequio al
rispetto per il suo “himitsu”. Ma la società attua un
comportamento duplice, da un lato accetta il suo segreto (e quindi
l'hikikomori), e dall'altro disprezza la fuga che la persona compie,
una fuga dalla produttività, che implica l'accusa di parassitismo.
Si stima che nel 2030, quando gli attuali hikikomori raggiungeranno
l'età della pensione, ci sarà una generazione di nullatenenti, non
avendo mai pagato le tasse. Oltre al problema economico nazionale c'è
il baratro in cui cadono le famiglie giapponesi che hanno un
hikikomori. Le famiglie si vergognano della loro situazione, quindi
il professore Saito Tamaki ha redatto un manuale di 500 pagine con le
risposte alle loro domande riguardo alla situazione in cui si
trovano. L'autrice ha tradotto le domande di questo manuale per far
capire il dramma di queste famiglie.
Il sesto capitolo ci informa su una nuova figura
terapeutica, la “rental onesan”, ovvero la “sorella maggiore in
affitto”. In Giappone a tutti è assegnato un ruolo sociale,
persino agli homeless ne è riconosciuto uno, agli hikikomori no, la
società giapponese non li sa ancora inquadrare. Il ruolo sociale è
così importante che in famiglia non ci si chiama per nome, ma per il
ruolo che in essa si svolge, quindi madre, padre, sorella maggiore,
sorella minore, fratello maggiore, fratello minore etc. Un fratello
maggiore, in base al suo ruolo, ha già u percorso di vita
organizzato e delle responsabilità precise. Infatti l'80% dei
giovani hikikomori sono figli unici o primogeniti. La “rental
onesan” non deve essere obbligatoriamente più grande
dell'hikikomori, ed il suo ruolo può essere utile in soggetti che si
sono auto reclusi da poco tempo, 10/18 mesi. Questa nuova figura
nasce nel 2003 nel centro New Status, in cui gran parte del personale
è formato da ex hikikomori. In tutta Tokyo ci sono solo una trentina
di rental onesan, esse non sono necessariamente delle terapeute, ma
persone che decidono di dedicarsi agli hikikomori. Il loro
compito/ruolo è di instaurare un rapporto con chi fa hikikomori
(fase che può durare settimane o mesi, oppure fallire), non pongono
domande, non forzano, attendono, anche dietro la porta chiusa. Se
accettate in stanza rimangono anche in silenzio per ore e poi tornano
a casa. Sarà il soggetto a decidere cosa fare, se uscire di casa, ed
a quel punto la rental onesan sarà lì con lui.
Il settimo capitolo illustra la strada intrapresa da un
terapeuta, Takeshi Watanabe, per fa uscire chi fa hikikomori dalla
sua auto reclusione, la musica. Watanabe spiega come, nonostante sia
interpellato dai genitori, si ritrovi a dover superare due muri: la
porta chiusa del soggetto e la barriera eretta dai genitori. Infatti
questi, inconsciamente, si sentono violati nel loro privato da un
estraneo. In base all'esperienza di Watanabe il 30% degli hikikomori
ricorda il trauma che lo ha portato a rinchiudersi, mentre circa un
altro 30% non rammenta il motivo specifico che ha causato la sua
decisione. La terapia da seguire per questi due gruppi è differente.
Inoltre ha riscontrato che le ragazze hikikomori son in aumento, e di
una fragilità estrema, e con le ragazze la sua terapia musicale è
meno efficace. La terapia musicale di Watanabe è basata su un
procedimento di catarsi, se l'hikikomori è in preda ad una forte
tensione la musica sarà forte, se è triste la musica sarà triste.
Anche Watanabe, una volta riuscito a stabilire un contatto con chi fa
hikikomori, evita le domande, perché quando l'hikikomori accetta il
terapeuta di norma non rimane in silenzio. Un altro 30% dei soggetti
non vive totalmente recluso, quindi con loro la terapia è
differente.
Nell'ottavo capitolo è raccontato il percorso
terapeutico di Masuko, un paziente di Watanabe, visto dal punto di
vista del terapeuta. Masuko iniziò a fare hikikomori a 16 anni, e la
terapia con Watanabe durò 10 anni! Alla fine, oltre all'impegni di
Watanabe e alla sua terapia musicale (musica che era la passione di
Masuko), fu un cane ad obbligare l'ormai ex ragazzo ad uscire di
casa, un cane regalatogli dalla madre.
Nel nono capitolo è lo stesso Masuko, dopo 7 anni dalla
fine della terapia con Watanabe, a raccontare il perché di quei 10
anni di reclusione e come aveva vissuto quegli ultimi 7 anni di vita
normale, il tutto raccontato direttamente all'autrice.
Il decimo capitolo è un testo dello stesso Watanabe sul
suo mestiere di terapeuta con gli hikikomori, tradotto dall'autrice.
I contenuti sono molto interessanti, riporto un piccolo sunto non
esaustivo dell'esperienza di Watanabe.
In una famiglia con un hikikomori la situazione
precipita in una escalation di rabbia. Il padre mostra la sua rabbia
allontanandosi. La madre, nel tentativo di proteggere il figlio dal
padre, mostra la sua rabbia disperandosi. La famiglia non ne parla
coi parenti. Infine tutti ricevono una pressione insopportabile,
l'hikikomori dai genitori, i genitori dai parenti. La parola
hikikomori è formata da due parole: hiko e komoru. “Hiko”
significa “ritirarsi”, “l'assicurarsi un posto sicuro”. Mel
termine “komoru” c'è l'idea del “chiudersi” (la spiegazione
del saggio è molto più articolata, ed è comprensiva anche dei
relativi ideogrammi). Ci sono tre tipi di hikikomori: withdrawn; shut
in; retreat (nel aggio le 3 definizioni sono comprensive di
spiegazioni dettagliate). Gli stati d'animo di un hikikomori sono
essenzialmente tre: l'ansia di non sapere cosa fare; la rabbia di non
venir capiti; il senso di colpa perché non ci si sta scusando dei
problemi creati. Ci sono cinque aspetti riguardanti gli hikikomori
(spiegati dettagliatamente nel saggio): comunicazione; approccio
verso la vita; inversione del tempo; creatività; famiglia. Sullo
sfondo della situazione hikikomori ci sono tre cause sociali (tutte
be, spiegate nel saggio): il crollo della famiglia; il crollo della
natura; il crollo della vera comunicazione. Watanabe spiega come si
struttura la visita ad un hikikomori, e come fa a procedere nella
terapia.
Il capitolo undici contiene un'intervista (o racconto)
di Carla Ricci alla madre di un hikikomori di 39 anni, che lo è da
19 anni. Una testimonianza interessantissima, in cui l'autrice
analizza il rapporto madre-figlio nella società giapponese.
Nel dodicesimo capitolo Carla Ricci racconta il suo
incontro casuale con Kyoko, una ragazza anoressica che fa hikikomori.
Il racconto è molto toccante, ed è anche un'occasione per
analizzare il rapporto degli hikikomori col cibo.
Il capitolo numero tredici vede Carla Ricci interpellata
da una madre a proposito della figlia 25enne Akina, sofferente di
depressione, che nei periodi più brutti si rifugia in hikikomori.
Quindi Akina non è perennemente reclusa, ma alterna fasi di
hikikomori a periodi in cui lavora, seppur lavori saltuari, chiamati
in Giappone “baito”. Dal primo incontro nasce una relazione via
mail, in cui Akina le racconta il suo vissuto quotidiano, lavorativo
o di auto reclusione. Questa vicenda è anche uno spunto per
affrontare il mondo del lavoro fatto di “lavoretti” o “baito”.
Il genere di lavoro che chi esce da hikikomori inizia a svolgere per
primo, quindi un tipo di lavoro indispensabile per una terapia.
Il 14esimo capitolo racconta la storia di un 60enne e
del suo tojikomori, uno stato di hikikomori in cui il soggetto
sceglie di stare da solo, senza il supporto di nessuno, e senza che
affiorino i sensi di colpa tipici degli hikikomori. Ryou, il
protagonista di questo fatto, racconta del suo malessere, che chiama
“kokoro-noyami”, “buio del cuore”.
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