TITOLO: Cina e Giappone
AUTORE: Renato Simoni
CASA EDITRICE: Ispi
PAGINE: 215
COSTO: 20/40€?
ANNO: 1942
FORMATO: 22 cm X 16 cm
REPERIBILITA': Reperibile su internet
CODICE ISBN: ?
Questo libro è stato stampato nel
1942, ma riporta fatti antecedenti, ritengo del 1912. Purtroppo non è
presente nessuna prefazione dell'autore che dia date precise, ma dato
che tratta i funerali dell'Imperatore Meiji, che morì il 30 luglio
1912, ritengo che il periodo del viaggio di Simoni in Giappone sia
quello.
Tra l'altro, come il titolo fa
capire, Simoni nella prima parte racconta della Cina, nella seconda
del Giappone, qui mi limiterò alla parte nipponica.
Facendo una ricerca sul web ho
appreso che Renato Simoni si è occupato spesso di teatro, ed era un
giornalista, motivo per il quale l'ultimo capitolo è una dettagliata
disanima sui tipi di teatro giapponesi (No, Kabuki, Joruri).
Tutto questo libro meriterebbe una
ristampa, come i racconti di Lafcadio Hearn sono ristampati perché
offrono uno spaccato del Giappone che non c'è più, anche questo
libro permetterebbe la stessa operazione, però da un punto di vista
italiano.
Alcuni aspetti del Giappone sono
enfatizzati, tipo lo spirito di battaglia o la purezza della sua
razza, forse anche per il periodo in cui fu pubblicato in Italia.
Ovviamente il Giappone raccontato
(con un italiano comprensibilissimo ma dalle forme talvolta strane
per il 2011) da Simoni non esiste più, ed è questo, forse, un
aspetto interessante del libro, un punto di vista scevro dalle
influenze moderne, ma di certo influenzato da quelle militariste di
allora.
La parte riguardante il Giappone
si intitola “Giappone Imperiale”, e consta di 9 capitoli, ognuno
incentrato su un aspetto del Giappone a quel tempo “contemporaneo”.
Il primo capitolo sul Giappone
s'intitola “Un albergo giapponese”.
Qui Simoni racconta, con grande
meraviglia e ammirazione, come è stato accolto in un piccolo albergo
tipicamente giapponese. La curiosità della gente verso lo straniero,
i mille inchini e gentilezze di cui è oggetto, l'organizzazione
degli spazi della stanza così differenti da quelli occidentali, lo
spettacolo visivo dei pasti, la giovialità e la pulizia dei
giapponesi, tutti questi aspetti impressionano l'autore. Simoni
ammette di sentirsi un poco mortificato quando le persone
dell'albergo ridono della sua goffaggine occidentale mentre cerca di
comportarsi come un giapponese, ma chiosa: “Vi ridono in faccia con
tanta semplicità che non ve ne avete a male”.
Si sorprende per la “promiscuità
del lavatoio”, ma ne apprezza l'estrema pulizia, cosa non scontata
nell'Italia di quegli anni. Pare sentirsi un po' oppresso dalla vita
sociale in albergo: “Lì dentro comprendete che razza di incubo sia
il vostro signor “io”. Lì, dove la collettività è la forma
spontanea che la vita assume, dove nessuno vive per sé, ma ciascuno
per tutti, o, almeno, con tutti”.
Apprezza l'assenza del superfluo,
l'assenza dei mobili, dei bisogni artificiali di un occidentale.
Scrive anche un curioso, riferito alla vita in Italia rispetto a
quella in Giappone, “...schiavi dei vostri servi”, dal che si può
dedurre che Simoni avesse dei servi in Italia.
Riguardo ai pasti racconta che
sono leggeri, quasi frugali, non si eccede mai nel cibo, e che dare
cibo alle “servette” dell'albergo le offenderebbe, al massimo si
può offrire una fetta di mela, che verrà consumata successivamente.
Magari le “servette” avevano fame e avrebbero accettato anche
tutto il pasto...
Riporta che quando si ha fame si
dice “o naka ga sukimashita”, “l'onorevole interno è diventato
vuoto”, questa nella lingua “povera”, come lui la chiama.
Il secondo capitolo si intitola
“La vera Madama Butterfly”
Dove racconta di una ragazza, Nobu
Hara, che trova il coraggio di chiedere ad un tenero italiano, tal
Sarcoli (vicino di casa di Simoni), di insegnarle canto. Sarcoli
accetta e la ragazza gli fa anche le pulizie domestiche prima di
imparare la Madama Butterfly, cosa molto apprezzata da Simoni, che
commenta: “Le donne, almeno in Giappone, hanno pur la missione di
rendersi utili”. In casa di Sarcoli ci sono anche altre tre
ragazze, due di queste sono 15enni, però non si capisce se fossero
studentesse o cameriere. Commentando l'atteggiamento di queste 2
ragazze 15enni Simoni fa l'elogio all'inchino della donna giapponese,
felice di essere sottomessa.
Il terzo capitolo si intitola “In
casa di Togo”
All'inizio di questo capitolo
Simoni si rammarica che le interviste fatte fino non lo soddisfino,
mancano di spontaneità, i traduttori gli dicono sempre quello che
lui immagina già gli diranno. La sua insoddisfazione cessa quando si
reca a casa niente di meno dell'ammiraglio Togo, eroe della vittoria
navale nella guerra russo-giapponese del 1904-05. Faccio presente che
il termine italiano “togo”, cioè “forte!”, deriva proprio
dallo scalpore di quella vittoria ad opera dell'ammiraglio Togo.
Nel raccontare di Togo e del
Tenno, cioè l'imperatore del Giappone, Simoni scrive che il Tenno
“ha sangue divino nelle sue vene”. In questa intervista
l'interprete di Simoni era l'ambasciatore italiano, Alfonso Gasco.
Ad una domanda di Simoni sulle
vittorie passate Togo risponde:
“Sì, l'anima mia è colma di
gioia per quello che è stato fatto. Ma qualche amaro conturba questa
gioia. Chi nasce non sa quali vicende lo aspettino. IL futuro è
misterioso. L'avvenire un problema. E penso all'avvenire e mi domando
se sempre si potrà compiere quello che si è compiuto nel passato”.
Simoni non riesce a capire se la
risposta di Togo è sincera oppure fa parte dell'usanza giapponese
che, nelle conversazioni, li porta, oltre ad essere modesti, a
blandire l'interlocutore. Arrivando a dire ciò che questi vorrebbe
sentirsi dire, anche se non è ciò che penano loro.
Il quarto capitolo si intitola
“Yamato”
In attesa del funerale
dell'imperatore Meiji l'autore racconta alcuni preparativi a Kyoto e
Nara. Passa in rassegna la bellezza dei luoghi che visita, racconta
dello spirito di Yamato e della dea Amaterasu. Parla dei templi, dei
pellegrini, della purezza di quei luoghi che non possono altro che
generare uomini puri, della loro fede che non è fanatismo(!), ma
cita una sola volta il Buddha e mai lo shintoismo. Anche se dello
shinto parlerà dei capitoli successivi.
Il quinto capitolo si intitola “La
morte di un samurai”
Qui si racconta del suicidio
rituale del generale Nogi, che alla morte dell'imperatore Meiji (di
cui era un fedele soldato e servitore) decise di seguirlo assieme
alla moglie. Una consuetudine presente prima dell'era Tokugawa, ma da
molto tempo non più seguita, alla morte del signore feudale i
samurai facevano seppuku.
E qui Simoni fa delle interessanti
considerazioni sull'importanza del bushido per i giapponesi, in
quanto Nogi aveva fatto seppuku in osservanza del bushido. Si ha
un'idea di cosa percepisse un occidentale dell'etica del bushido.
Ecco un pensiero di Simoni:
“Bushido è la vera natura del
Giappone, il suo patrimonio ideale. E' la concezione dell'uomo-tipo,
soprattutto dell'uomo soldato. Ma poiché la casta militare è sempre
stata, per i giapponesi, la più alta e la più nobile, sono le virtù
meglio pregiate da essa e in essa, che costituiscono il principio
d'ogni elevazione morale.”
Simoni spiega bene cosa era il
bushido, come e quando nacque, continuando con gli aneddoti su Nogi.
Il sesto capitolo si intitola “Tra
il vecchio ed il nuovo”
Il suicidio rituale di Nogi
permette a Simoni di fare delle considerazioni sulla difficoltà dei
giapponesi ad accettare la modernità, visto che una parte della
popolazione era ancora legata alle tradizioni feudali. Simoni nota
che con la modernizzazione arrivò anche la morale cristiana (che in
realtà era arrivata già qualche secolo prima, e prontamente
scacciata), ma la morale cristiana non si “acconcia” con la
morale nipponica. I cuori giapponesi non accettarono la morale
cristiana, ma le menti ne furono comunque influenzate. Tanto che il
suicidio di Nogi scatenò un dibattito interno sulla sua liceità. Il
popolo apprezzava il gesto di Nogi, mentre la classe dirigente se ne
vergognava, perché temevano di essere giudicati dei barbari dagli
occidentali. Secondo Simoni il Giappone si era lasciato mettere due
catene: una finanziaria, una di scrupoli.
Simoni commenta:
“E' curiosa la condizione
psicologica in cui si trova l'intelletto giapponese: si sente
profondamente civile solo quando si sprofonda per così dire nella
vecchia sapienza del suo paese, ma sa che, per sembrare civile agli
altri, deve, invece, rivestirsi di un pensiero occidentale. Il
giapponese è, da qualche decennio, costretto a recitare, in buona
fede, una grande commedia. Come porta, spesso, in strada, i nostri
abiti, ma appena rientrato a casa, li spoglia e indossa ancora il
comodo kimono e si accoccola per terra e fa e riceve inchini; così,
davanti agli occhi estranei, si atteggia ad una perfetta imitazione
delle abitudini e dei costumi europei. Ed è europeo in tutti i suoi
atti pubblici, nei suoi rapporti col pubblico; ma giapponese in tutti
i rapporti privati, giapponese nell'organizzazione della famiglia,
giapponese nelle occulte pieghe del pensiero, giapponese nel modo di
concepire e di sentire la vita.”
Il settimo capitolo si intitola “I
funerali del Tenno”
Simoni descrive il funerale
dell'imperatore Meiji, in tutti i suoi aspetti, da quello formale al
comportamento dei sudditi.
A proposito del rituale del
funerale scrive:
“Ed ecco un bagliore rosso
insanguina il torji; entrano le prime torce, portate da uomini
vestiti d'un saio nero, calzati di paglia, con due alette di paglia
nera alle tempie, che danno loro un ceffo mostruoso; sono gli
abitanti di un villaggio vicino a Kyoto, che, da secoli, hanno il
privilegio di accompagnare i funerali imperiali. E, veramente, sono i
rozzi beccamorti dell'antichità”.
Forse Simoni stava descrivendo dei
burakumin becchini di Kyoto, se fosse stato così più che un
“privilegio secolare” sarebbe una “condanna generazionale”.
L'ottavo capitolo si intitola “Due
italiano d'estremo oriente”
Simoni racconta brevemente le
opere di Alfonso Gasco, ambasciatore italiano in Giappone. Spiegando
la grande conoscenza che questi aveva del giapponese parlato e
scritto, compreso lo scritto antico, fa delle considerazioni sulla
difficoltà di imparare il giapponese, sa parlato che scritto.
L'altro italiano importante era il
barone Vitale, che visse in Cina, ed era un conoscitore delle lingue
della Cina.
Il nono e ultimo capitolo si
intitola “Teatro giapponese”
Secondo Simoni in Giappone
affermano che il loro teatro sta assimilando elementi occidentali,
questo all'incirca nel 1912!
Simoni fa una analisi approfondita
dei tre tipo di teatro: il “No”, il “Kabuki” e il Joruri.
Quest'ultimo era già allora un
teatro morente, con un ultimo teatro ad Osaka, ed era fatto da
marionette, ma non era un teatro per bambini, come quello dei nostri
pupi siciliani.
Mentre il Kabuki (in quel periodo)
era nel pieno della sua notorietà, essendo il teatro popolare. Il
teatro No era indirizzato ai nobili. Simoni elenca i topoi classici
di questi tre teatri, che nascono dal fondersi di storie shinto,
buddhiste e del bushido. Di tutto questo Simoni fa una analisi
accurata, che per la mia ignoranza del teatro giapponese (ma anche
del teatro in generale) non posso apprezzare appieno, comunque
interessante.
Nessun commento:
Posta un commento