TITOLO: Enigmatico Giappone
AUTORE: Alan Macfarlane
CASA EDITRICE: EDT
PAGINE: 20€
COSTO: 268
ANNO: 2010
FORMATO: 21 cm X 15
cm
REPERIBILITA': Ancora presente nelle librerie di
Milano
CODICE ISBN: 9788860406699
Inizierò
con un giudizio sul saggio che, forse, avrei dovuto dare alla fine
della recensione: non so valutare se è un libro valido o meno.
Il
libro di Alan Macfarlane, un antropologo, pare esprimere idee basate
sulla realtà, però ci sono casi in cui ho riscontrato inesattezze.
Bisognerebbe vedere se queste eventuali inesattezze siano presenti
anche nei (numerosi) campi che mi sono sconosciuti, quindi non da me
notabili.
In
generale il saggio è un tantino caotico, ci sono si 6 capitoli
cardine, ma all'interno di questi i temi trattati non seguono un
senso logico e, talvolta, sono lasciati e ripresi più volte. In
alcuni casi è più un diario di viaggio che un saggio, in più sono
molto spesso citati brani di altri studiosi del Giappone (Maraini,
Hearn, Ruth, Lowell, Morse e molti altri).
Dopo
tre righe della prefazione l'autore chiarisce che non sa leggere né
scrivere il giapponese. Quindi deve infiniti ringraziamenti agli
amici giapponesi che lo hanno seguito nelle indagini sul Giappone.
Inoltre, sempre l'autore, ammette molto onestamente, che prima del
1990 (anno in cui si recò per la prima volta in Giappone per
iniziare i suoi studi sul Giappone) non aveva nessuna conoscenza del
Giappone. Scrive che era sua convinzione che il Giappone e la Cina
fossero simili. Le sue poche informazione sul Giappone erano
superficiali e piene di stereotipi, quindi Macfarlane afferma che
questo libro potrebbe illuminare chi è poco informato, come lo era
lui fino al 1990.
In un accenno all'importanza culturale degli anime li
chiama “cartoni animati manga”, mentre più avanti li chiama
“film giapponesi anime, cioè d'animazione”, ... spero siano un
errori di traduzione.
Il secondo capitolo si occupa dell'arte giapponese, e di
come, fino al 1900, non esisteva la differenza, tutta occidentale,
tra arte e artigiano. Quindi anche l'oggetto utilitaristico (come una
semplice ciotola) era rifinito con particolari estetici di pregio,
che in occidente erano riservati ai beni per i ricchi o artistici.
L'arte giapponese è allusiva e simbolica, il tratto sobrio e
tendente a far risaltare la brevità delle cose belle. Il capitolo
spazia dalle arti visive ai giardini, dalla letteratura al teatro, ma
anche le abitazioni e la natura visti dal loro lato culturale, oppure
il sumo, le terme, la cerimonia del tè, il sesso, l'alimentazione.
In pratica un capitolo omni comprensivo, in cui è difficile trovare
un ordine, se non la cultura in generale.
Il successivo capitolo è come un libro di scuola delle
medie, con nozioni di economia, geografia, agricoltura, industrie,
risorse, lavoro, aziende, proprietà privata, controllo delle
nascite. Sempre con informazioni di carattere storico. Interessante
la parte riguardo il controllo delle nascite effettuato tramite
aborti ed infanticidio, praticato fino alla metà del 1900.
Sul versante economico è curioso notare che non
esistesse neppure un termine giapponese per indicare la parola
“economia”, infatti “keizai” si riferisce “alla guida
politco-spirituale della vita sociale nel suo complesso”.
Alla fine del XIX secolo Fukuzawa tradusse un libro che
trattava dell'economia occidentale, ma il termine “concorrenza”
non esisteva in giapponese. Quindi Fukuzawa coniò la parola “kyoso”,
che letteralmente significa “gara-lotta”. Il funzionario che
doveva supervisionare la traduzione di Fukuzawa rifiutò il termine
kyoso perché conteneva la parola “lotta”, con la motivazione che
era una parola priva di pace.
In
Giappone l'uso del denaro, pur sviluppandosi fin dal 1270, rimase
relegato alla compravendita di beni, e non si trasferì, come in
occidente, alle persone. Infatti il lavoro di una persona veniva
considerato come un dono del lavoratore al datore di lavoro, che in
cambio gli elargiva il salario. Quindi un dono, non uno stipendio,
tanto che la parola giapponese che indica il salario, “roku”,
significa “regalo”.
Questa peculiarità riguardo il denaro applicata alle
prestazioni lavorative è ancora presente, per esempio per il
pagamento degli insegnanti privati. Gli insegnanti privati non si
permettono di chiedere il pagamento delle ore insegnate, né di
fissare dei prezzi, è la famiglia a decidere quanto e quando pagare,
in quanto l'onorario dell'insegnante rientra nell'ambito delle
relazioni sociali, e non in quelle economiche.
Questo atteggiamento verso il denaro e le persone porta,
rispetto all'occidente, ad un suo sproporzionato del personale in
tutti i settori non industriali. I beni appartengono al mercato e
sono sottoposti alla concorrenza, i lavoratori sono inseriti in un
altro schema non economico, ma sociale. Si può risparmiare (e si
deve) sui costi di produzione, ma non sacrificando il personale.
Anche se, a mio avviso, non è più così neppure in Giappone.
In questo capitolo, che dovrebbe avere un taglio
generalista sul Giappone, non c'è nessun accenno al popolo delle
isole Ryukyu (l'isola di Okinawa).
Il quarto capitolo analizza la struttura “del gruppo”,
e le difficoltà che incontra l'individualismo in Giappone. La
famiglia, la classe a scuola, il quartiere o il villaggio, i colleghi
di lavoro o la stessa azienda vengono prima del singolo individuo.
Si passa a vari argomenti: i rapporti sentimentali, il
matrimonio combinato, la vita matrimoniale, le attenzioni verso i
figli e la loro educazione, i rapporti tra uomo e donna, la
condizione femminile, l'etica giapponese del lavoro, i concetti di
“on”, la gerarchia sociale, il concetto di “giri”, il gruppo
“ie”.
Affrontando il tema della classi sociali (o caste)
l'autore afferma che in Giappone non sono mai esistite, almeno non
nelle forme presenti per esempio in India. Inoltre fa la
considerazione che, comunque, queste classi erano poco rigide, visto
che era possibile l'innalzamento di classe. Per quanto le due
considerazioni siano in generale corrette pare che l'autore non
consideri i burakumin (o eta), che erano (ed in parte sono ancora)
una casta vera e propria, da cui era impossibile emanciparsi. Le
considerazioni di Macfarlane sono ancor più erronee in quanto, più
avanti nel saggio, da ampia spiegazione delle discriminazioni che i
burakumin hanno sopportato e sopportano tuttora. Una palese
contraddizione, quasi non avesse letto il suo stesso libro.
Il quinto capitolo ha come fulcro “il potere”.
Quindi sono esaminate tutte le forme di potere susseguitesi in
Giappone. In particolare l'autore si sofferma sulla creazione ex novo
del culto dell'imperatore, introdotto con la restaurazione Meiji.
Inoltre si affrontano i temi del potere politico presente (poco) e
passato, la burocrazia, il potere militare (e dei crimini di guerra),
la giustizia, la yakuza.
Sulla yakuza è interessante come l'autore la inquadra.
A differenza di altre mafie, che sono considerate illegali e
combattute, le autorità giapponesi tollerano, entro certi limiti, la
yakuza. Lasciano, in pratica, alla yakuza un certo campo di manovra
(o di affari) allo scopo che essa stessa funga da controllo verso gli
altri criminali. In questo modo la criminalità, che esiste in tutte
le società, viene circoscritta, ovviamente a patto che la yakuza
rimanga entro i confini che lo Stato le ha informalmente imposto.
Il sesto capitolo affronta il tema delle “idee”.
Inizia con una breve analisi dei concetti di “uchi” e “soto”,
quindi passa a vari argomenti: il concetto di tempo giapponese, i
numeri, la lingua giapponese, la grammatica in relazione al modo di
esprimere (o non esprimere direttamente) contrarietà, l'importanza
del silenzio per comunicare idee, la logica giapponese, l'etichetta
delle relazioni interpersonali, il concetto di purezza e pulizia, gli
ainu e gli immigrati (accomunati dallo stesso destino di
discriminazioni), il concetto di sincerità.
In
questo contesto si parla dei 3 milioni di burakumin, di cui farebbero
parte anche i comici! L'autore li inserisce nel gruppo di burakumin
chiamato “hinin” (meno impuro degli eta), di cui fanno parte
anche i mendicanti e i boia.
Il settimo capitolo si occupa delle fedi e delle
credenze. Viene analizzata l'assenza dei concetti di colpa, peccato,
paradiso, dio, bene e male, anima, karma o destino.
In varie argomentazioni inerenti i kami l'autore scrive
che in “La principessa Mononoke” Miyazaki ritrae i kami “come
astratte luci danzanti, cogliendo perfettamente la loro natura”.
Sinceramente non so che film abbia visto Macfarlane, di certo non
“Mononoke Hime”...
E poi, ovviamente, vengono trattati tutti i temi tipici
della spiritualità nipponica, i kami, la festività del bon, la
morale religiosa o la sua assenza (per i canoni occidentali).Viene
spiegato in che modo buddhismo e confucianesimo furono assorbite e
modificate per essere adattate alle esigenze politiche giapponesi,
perdendo, così, i tratti più importanti che le identificavano come
religioni.
In questo capitolo sulle fedi e le credenze sono
dedicate poche righe al fenomeno tutto giapponese delle “nuove
religioni”. Inoltre non è toccato lo shintoismo in collegamento
con i culti dell'Imperatore.
Nell'ultimo capitolo Macfarlane cerca una sintesi dei
capitoli precedenti alla ricerca del motivo, del tratto specifico,
che fa del Giappone una nazione così diversa dalle nazioni
occidentali e dalla Cina. In ultima analisi cosa differenzia i
giapponesi da noi? E perché gli stessi giapponesi frappongono tanti
ostacoli al “nostro” tentativo di scoprirlo?
Macfarlane è professore di antropologia, quindi usa le
sue conoscenze scientifiche sommate ai 15 anni di studi sul Giappone
per dare una risposta a questi 2 quesiti. La sua considerazione
finale (semplificando di molto) è che si tratti di una società con
forti tratti tribali. Questa caratteristica fa del Giappone l'unico
paese che porta una concezione alternativa del mondo rispetto al
capitalismo occidentale o a qualsiasi altra forma
filosofica/religiosa/economica/politica di governo presente sul
pianeta.
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