CERCA NEL BLOG

domenica 2 giugno 2013

Enigmatico Giappone


TITOLO: Enigmatico Giappone
AUTORE: Alan Macfarlane
CASA EDITRICE: EDT
PAGINE: 20€
COSTO: 268
ANNO: 2010 
FORMATO: 21 cm X 15 cm
REPERIBILITA': Ancora presente nelle librerie di Milano
CODICE ISBN: 9788860406699

Inizierò con un giudizio sul saggio che, forse, avrei dovuto dare alla fine della recensione: non so valutare se è un libro valido o meno.

Il libro di Alan Macfarlane, un antropologo, pare esprimere idee basate sulla realtà, però ci sono casi in cui ho riscontrato inesattezze. Bisognerebbe vedere se queste eventuali inesattezze siano presenti anche nei (numerosi) campi che mi sono sconosciuti, quindi non da me notabili.
In generale il saggio è un tantino caotico, ci sono si 6 capitoli cardine, ma all'interno di questi i temi trattati non seguono un senso logico e, talvolta, sono lasciati e ripresi più volte. In alcuni casi è più un diario di viaggio che un saggio, in più sono molto spesso citati brani di altri studiosi del Giappone (Maraini, Hearn, Ruth, Lowell, Morse e molti altri).
Dopo tre righe della prefazione l'autore chiarisce che non sa leggere né scrivere il giapponese. Quindi deve infiniti ringraziamenti agli amici giapponesi che lo hanno seguito nelle indagini sul Giappone. Inoltre, sempre l'autore, ammette molto onestamente, che prima del 1990 (anno in cui si recò per la prima volta in Giappone per iniziare i suoi studi sul Giappone) non aveva nessuna conoscenza del Giappone. Scrive che era sua convinzione che il Giappone e la Cina fossero simili. Le sue poche informazione sul Giappone erano superficiali e piene di stereotipi, quindi Macfarlane afferma che questo libro potrebbe illuminare chi è poco informato, come lo era lui fino al 1990.
Inizialmente viene analizzato il nihonjinron, il nazionalismo culturale giapponese, e il suo opposto, che l'autore chiama anti- nihonjinron, ovvero l'orientalismo e l'occidentalismo. Il nihonjinron nacque dopo la seconda guerra mondiale, verso gli anni 60 e 70, in opposizione alla supremazia culturale statunitense. La base del pensiero nihonjinron è l'unicità culturale del Giappone e dei giapponesi, teoria non propriamente del 1960.
In un accenno all'importanza culturale degli anime li chiama “cartoni animati manga”, mentre più avanti li chiama “film giapponesi anime, cioè d'animazione”, ... spero siano un errori di traduzione.

Il secondo capitolo si occupa dell'arte giapponese, e di come, fino al 1900, non esisteva la differenza, tutta occidentale, tra arte e artigiano. Quindi anche l'oggetto utilitaristico (come una semplice ciotola) era rifinito con particolari estetici di pregio, che in occidente erano riservati ai beni per i ricchi o artistici. L'arte giapponese è allusiva e simbolica, il tratto sobrio e tendente a far risaltare la brevità delle cose belle. Il capitolo spazia dalle arti visive ai giardini, dalla letteratura al teatro, ma anche le abitazioni e la natura visti dal loro lato culturale, oppure il sumo, le terme, la cerimonia del tè, il sesso, l'alimentazione. In pratica un capitolo omni comprensivo, in cui è difficile trovare un ordine, se non la cultura in generale.

Il successivo capitolo è come un libro di scuola delle medie, con nozioni di economia, geografia, agricoltura, industrie, risorse, lavoro, aziende, proprietà privata, controllo delle nascite. Sempre con informazioni di carattere storico. Interessante la parte riguardo il controllo delle nascite effettuato tramite aborti ed infanticidio, praticato fino alla metà del 1900.
Sul versante economico è curioso notare che non esistesse neppure un termine giapponese per indicare la parola “economia”, infatti “keizai” si riferisce “alla guida politco-spirituale della vita sociale nel suo complesso”.
Alla fine del XIX secolo Fukuzawa tradusse un libro che trattava dell'economia occidentale, ma il termine “concorrenza” non esisteva in giapponese. Quindi Fukuzawa coniò la parola “kyoso”, che letteralmente significa “gara-lotta”. Il funzionario che doveva supervisionare la traduzione di Fukuzawa rifiutò il termine kyoso perché conteneva la parola “lotta”, con la motivazione che era una parola priva di pace.
In Giappone l'uso del denaro, pur sviluppandosi fin dal 1270, rimase relegato alla compravendita di beni, e non si trasferì, come in occidente, alle persone. Infatti il lavoro di una persona veniva considerato come un dono del lavoratore al datore di lavoro, che in cambio gli elargiva il salario. Quindi un dono, non uno stipendio, tanto che la parola giapponese che indica il salario, “roku”, significa “regalo”.
Questa peculiarità riguardo il denaro applicata alle prestazioni lavorative è ancora presente, per esempio per il pagamento degli insegnanti privati. Gli insegnanti privati non si permettono di chiedere il pagamento delle ore insegnate, né di fissare dei prezzi, è la famiglia a decidere quanto e quando pagare, in quanto l'onorario dell'insegnante rientra nell'ambito delle relazioni sociali, e non in quelle economiche.
Questo atteggiamento verso il denaro e le persone porta, rispetto all'occidente, ad un suo sproporzionato del personale in tutti i settori non industriali. I beni appartengono al mercato e sono sottoposti alla concorrenza, i lavoratori sono inseriti in un altro schema non economico, ma sociale. Si può risparmiare (e si deve) sui costi di produzione, ma non sacrificando il personale. Anche se, a mio avviso, non è più così neppure in Giappone.
In questo capitolo, che dovrebbe avere un taglio generalista sul Giappone, non c'è nessun accenno al popolo delle isole Ryukyu (l'isola di Okinawa).

Il quarto capitolo analizza la struttura “del gruppo”, e le difficoltà che incontra l'individualismo in Giappone. La famiglia, la classe a scuola, il quartiere o il villaggio, i colleghi di lavoro o la stessa azienda vengono prima del singolo individuo.
Si passa a vari argomenti: i rapporti sentimentali, il matrimonio combinato, la vita matrimoniale, le attenzioni verso i figli e la loro educazione, i rapporti tra uomo e donna, la condizione femminile, l'etica giapponese del lavoro, i concetti di “on”, la gerarchia sociale, il concetto di “giri”, il gruppo “ie”.
Affrontando il tema della classi sociali (o caste) l'autore afferma che in Giappone non sono mai esistite, almeno non nelle forme presenti per esempio in India. Inoltre fa la considerazione che, comunque, queste classi erano poco rigide, visto che era possibile l'innalzamento di classe. Per quanto le due considerazioni siano in generale corrette pare che l'autore non consideri i burakumin (o eta), che erano (ed in parte sono ancora) una casta vera e propria, da cui era impossibile emanciparsi. Le considerazioni di Macfarlane sono ancor più erronee in quanto, più avanti nel saggio, da ampia spiegazione delle discriminazioni che i burakumin hanno sopportato e sopportano tuttora. Una palese contraddizione, quasi non avesse letto il suo stesso libro.

Il quinto capitolo ha come fulcro “il potere”. Quindi sono esaminate tutte le forme di potere susseguitesi in Giappone. In particolare l'autore si sofferma sulla creazione ex novo del culto dell'imperatore, introdotto con la restaurazione Meiji. Inoltre si affrontano i temi del potere politico presente (poco) e passato, la burocrazia, il potere militare (e dei crimini di guerra), la giustizia, la yakuza.
Sulla yakuza è interessante come l'autore la inquadra. A differenza di altre mafie, che sono considerate illegali e combattute, le autorità giapponesi tollerano, entro certi limiti, la yakuza. Lasciano, in pratica, alla yakuza un certo campo di manovra (o di affari) allo scopo che essa stessa funga da controllo verso gli altri criminali. In questo modo la criminalità, che esiste in tutte le società, viene circoscritta, ovviamente a patto che la yakuza rimanga entro i confini che lo Stato le ha informalmente imposto.

Il sesto capitolo affronta il tema delle “idee”. Inizia con una breve analisi dei concetti di “uchi” e “soto”, quindi passa a vari argomenti: il concetto di tempo giapponese, i numeri, la lingua giapponese, la grammatica in relazione al modo di esprimere (o non esprimere direttamente) contrarietà, l'importanza del silenzio per comunicare idee, la logica giapponese, l'etichetta delle relazioni interpersonali, il concetto di purezza e pulizia, gli ainu e gli immigrati (accomunati dallo stesso destino di discriminazioni), il concetto di sincerità.
In questo contesto si parla dei 3 milioni di burakumin, di cui farebbero parte anche i comici! L'autore li inserisce nel gruppo di burakumin chiamato “hinin” (meno impuro degli eta), di cui fanno parte anche i mendicanti e i boia.

Il settimo capitolo si occupa delle fedi e delle credenze. Viene analizzata l'assenza dei concetti di colpa, peccato, paradiso, dio, bene e male, anima, karma o destino.
In varie argomentazioni inerenti i kami l'autore scrive che in “La principessa Mononoke” Miyazaki ritrae i kami “come astratte luci danzanti, cogliendo perfettamente la loro natura”. Sinceramente non so che film abbia visto Macfarlane, di certo non “Mononoke Hime”...
E poi, ovviamente, vengono trattati tutti i temi tipici della spiritualità nipponica, i kami, la festività del bon, la morale religiosa o la sua assenza (per i canoni occidentali).Viene spiegato in che modo buddhismo e confucianesimo furono assorbite e modificate per essere adattate alle esigenze politiche giapponesi, perdendo, così, i tratti più importanti che le identificavano come religioni.
In questo capitolo sulle fedi e le credenze sono dedicate poche righe al fenomeno tutto giapponese delle “nuove religioni”. Inoltre non è toccato lo shintoismo in collegamento con i culti dell'Imperatore.

Nell'ultimo capitolo Macfarlane cerca una sintesi dei capitoli precedenti alla ricerca del motivo, del tratto specifico, che fa del Giappone una nazione così diversa dalle nazioni occidentali e dalla Cina. In ultima analisi cosa differenzia i giapponesi da noi? E perché gli stessi giapponesi frappongono tanti ostacoli al “nostro” tentativo di scoprirlo?
Macfarlane è professore di antropologia, quindi usa le sue conoscenze scientifiche sommate ai 15 anni di studi sul Giappone per dare una risposta a questi 2 quesiti. La sua considerazione finale (semplificando di molto) è che si tratti di una società con forti tratti tribali. Questa caratteristica fa del Giappone l'unico paese che porta una concezione alternativa del mondo rispetto al capitalismo occidentale o a qualsiasi altra forma filosofica/religiosa/economica/politica di governo presente sul pianeta.

Nessun commento:

Posta un commento