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domenica 2 giugno 2013

Cina e Giappone


TITOLO: Cina e Giappone
AUTORE: Renato Simoni
CASA EDITRICE: Ispi
PAGINE: 215
COSTO: 20/40€?
ANNO: 1942
FORMATO: 22 cm X 16 cm
REPERIBILITA': Reperibile su internet
CODICE ISBN: ?

Questo libro è stato stampato nel 1942, ma riporta fatti antecedenti, ritengo del 1912. Purtroppo non è presente nessuna prefazione dell'autore che dia date precise, ma dato che tratta i funerali dell'Imperatore Meiji, che morì il 30 luglio 1912, ritengo che il periodo del viaggio di Simoni in Giappone sia quello.
Tra l'altro, come il titolo fa capire, Simoni nella prima parte racconta della Cina, nella seconda del Giappone, qui mi limiterò alla parte nipponica.
Facendo una ricerca sul web ho appreso che Renato Simoni si è occupato spesso di teatro, ed era un giornalista, motivo per il quale l'ultimo capitolo è una dettagliata disanima sui tipi di teatro giapponesi (No, Kabuki, Joruri).
Tutto questo libro meriterebbe una ristampa, come i racconti di Lafcadio Hearn sono ristampati perché offrono uno spaccato del Giappone che non c'è più, anche questo libro permetterebbe la stessa operazione, però da un punto di vista italiano.
Alcuni aspetti del Giappone sono enfatizzati, tipo lo spirito di battaglia o la purezza della sua razza, forse anche per il periodo in cui fu pubblicato in Italia.
Ovviamente il Giappone raccontato (con un italiano comprensibilissimo ma dalle forme talvolta strane per il 2011) da Simoni non esiste più, ed è questo, forse, un aspetto interessante del libro, un punto di vista scevro dalle influenze moderne, ma di certo influenzato da quelle militariste di allora.
La parte riguardante il Giappone si intitola “Giappone Imperiale”, e consta di 9 capitoli, ognuno incentrato su un aspetto del Giappone a quel tempo “contemporaneo”.
Il primo capitolo sul Giappone s'intitola “Un albergo giapponese”.
Qui Simoni racconta, con grande meraviglia e ammirazione, come è stato accolto in un piccolo albergo tipicamente giapponese. La curiosità della gente verso lo straniero, i mille inchini e gentilezze di cui è oggetto, l'organizzazione degli spazi della stanza così differenti da quelli occidentali, lo spettacolo visivo dei pasti, la giovialità e la pulizia dei giapponesi, tutti questi aspetti impressionano l'autore. Simoni ammette di sentirsi un poco mortificato quando le persone dell'albergo ridono della sua goffaggine occidentale mentre cerca di comportarsi come un giapponese, ma chiosa: “Vi ridono in faccia con tanta semplicità che non ve ne avete a male”.
Si sorprende per la “promiscuità del lavatoio”, ma ne apprezza l'estrema pulizia, cosa non scontata nell'Italia di quegli anni. Pare sentirsi un po' oppresso dalla vita sociale in albergo: “Lì dentro comprendete che razza di incubo sia il vostro signor “io”. Lì, dove la collettività è la forma spontanea che la vita assume, dove nessuno vive per sé, ma ciascuno per tutti, o, almeno, con tutti”.
Apprezza l'assenza del superfluo, l'assenza dei mobili, dei bisogni artificiali di un occidentale. Scrive anche un curioso, riferito alla vita in Italia rispetto a quella in Giappone, “...schiavi dei vostri servi”, dal che si può dedurre che Simoni avesse dei servi in Italia.
Riguardo ai pasti racconta che sono leggeri, quasi frugali, non si eccede mai nel cibo, e che dare cibo alle “servette” dell'albergo le offenderebbe, al massimo si può offrire una fetta di mela, che verrà consumata successivamente. Magari le “servette” avevano fame e avrebbero accettato anche tutto il pasto...
Riporta che quando si ha fame si dice “o naka ga sukimashita”, “l'onorevole interno è diventato vuoto”, questa nella lingua “povera”, come lui la chiama.

Il secondo capitolo si intitola “La vera Madama Butterfly”
Dove racconta di una ragazza, Nobu Hara, che trova il coraggio di chiedere ad un tenero italiano, tal Sarcoli (vicino di casa di Simoni), di insegnarle canto. Sarcoli accetta e la ragazza gli fa anche le pulizie domestiche prima di imparare la Madama Butterfly, cosa molto apprezzata da Simoni, che commenta: “Le donne, almeno in Giappone, hanno pur la missione di rendersi utili”. In casa di Sarcoli ci sono anche altre tre ragazze, due di queste sono 15enni, però non si capisce se fossero studentesse o cameriere. Commentando l'atteggiamento di queste 2 ragazze 15enni Simoni fa l'elogio all'inchino della donna giapponese, felice di essere sottomessa.

Il terzo capitolo si intitola “In casa di Togo”
All'inizio di questo capitolo Simoni si rammarica che le interviste fatte fino non lo soddisfino, mancano di spontaneità, i traduttori gli dicono sempre quello che lui immagina già gli diranno. La sua insoddisfazione cessa quando si reca a casa niente di meno dell'ammiraglio Togo, eroe della vittoria navale nella guerra russo-giapponese del 1904-05. Faccio presente che il termine italiano “togo”, cioè “forte!”, deriva proprio dallo scalpore di quella vittoria ad opera dell'ammiraglio Togo.
Nel raccontare di Togo e del Tenno, cioè l'imperatore del Giappone, Simoni scrive che il Tenno “ha sangue divino nelle sue vene”. In questa intervista l'interprete di Simoni era l'ambasciatore italiano, Alfonso Gasco.
Ad una domanda di Simoni sulle vittorie passate Togo risponde:
Sì, l'anima mia è colma di gioia per quello che è stato fatto. Ma qualche amaro conturba questa gioia. Chi nasce non sa quali vicende lo aspettino. IL futuro è misterioso. L'avvenire un problema. E penso all'avvenire e mi domando se sempre si potrà compiere quello che si è compiuto nel passato”.
Simoni non riesce a capire se la risposta di Togo è sincera oppure fa parte dell'usanza giapponese che, nelle conversazioni, li porta, oltre ad essere modesti, a blandire l'interlocutore. Arrivando a dire ciò che questi vorrebbe sentirsi dire, anche se non è ciò che penano loro.

Il quarto capitolo si intitola “Yamato”
In attesa del funerale dell'imperatore Meiji l'autore racconta alcuni preparativi a Kyoto e Nara. Passa in rassegna la bellezza dei luoghi che visita, racconta dello spirito di Yamato e della dea Amaterasu. Parla dei templi, dei pellegrini, della purezza di quei luoghi che non possono altro che generare uomini puri, della loro fede che non è fanatismo(!), ma cita una sola volta il Buddha e mai lo shintoismo. Anche se dello shinto parlerà dei capitoli successivi.

Il quinto capitolo si intitola “La morte di un samurai”
Qui si racconta del suicidio rituale del generale Nogi, che alla morte dell'imperatore Meiji (di cui era un fedele soldato e servitore) decise di seguirlo assieme alla moglie. Una consuetudine presente prima dell'era Tokugawa, ma da molto tempo non più seguita, alla morte del signore feudale i samurai facevano seppuku.
E qui Simoni fa delle interessanti considerazioni sull'importanza del bushido per i giapponesi, in quanto Nogi aveva fatto seppuku in osservanza del bushido. Si ha un'idea di cosa percepisse un occidentale dell'etica del bushido.
Ecco un pensiero di Simoni:
Bushido è la vera natura del Giappone, il suo patrimonio ideale. E' la concezione dell'uomo-tipo, soprattutto dell'uomo soldato. Ma poiché la casta militare è sempre stata, per i giapponesi, la più alta e la più nobile, sono le virtù meglio pregiate da essa e in essa, che costituiscono il principio d'ogni elevazione morale.”
Simoni spiega bene cosa era il bushido, come e quando nacque, continuando con gli aneddoti su Nogi.

Il sesto capitolo si intitola “Tra il vecchio ed il nuovo”
Il suicidio rituale di Nogi permette a Simoni di fare delle considerazioni sulla difficoltà dei giapponesi ad accettare la modernità, visto che una parte della popolazione era ancora legata alle tradizioni feudali. Simoni nota che con la modernizzazione arrivò anche la morale cristiana (che in realtà era arrivata già qualche secolo prima, e prontamente scacciata), ma la morale cristiana non si “acconcia” con la morale nipponica. I cuori giapponesi non accettarono la morale cristiana, ma le menti ne furono comunque influenzate. Tanto che il suicidio di Nogi scatenò un dibattito interno sulla sua liceità. Il popolo apprezzava il gesto di Nogi, mentre la classe dirigente se ne vergognava, perché temevano di essere giudicati dei barbari dagli occidentali. Secondo Simoni il Giappone si era lasciato mettere due catene: una finanziaria, una di scrupoli.
Simoni commenta:
E' curiosa la condizione psicologica in cui si trova l'intelletto giapponese: si sente profondamente civile solo quando si sprofonda per così dire nella vecchia sapienza del suo paese, ma sa che, per sembrare civile agli altri, deve, invece, rivestirsi di un pensiero occidentale. Il giapponese è, da qualche decennio, costretto a recitare, in buona fede, una grande commedia. Come porta, spesso, in strada, i nostri abiti, ma appena rientrato a casa, li spoglia e indossa ancora il comodo kimono e si accoccola per terra e fa e riceve inchini; così, davanti agli occhi estranei, si atteggia ad una perfetta imitazione delle abitudini e dei costumi europei. Ed è europeo in tutti i suoi atti pubblici, nei suoi rapporti col pubblico; ma giapponese in tutti i rapporti privati, giapponese nell'organizzazione della famiglia, giapponese nelle occulte pieghe del pensiero, giapponese nel modo di concepire e di sentire la vita.”

Il settimo capitolo si intitola “I funerali del Tenno”
Simoni descrive il funerale dell'imperatore Meiji, in tutti i suoi aspetti, da quello formale al comportamento dei sudditi.
A proposito del rituale del funerale scrive:
Ed ecco un bagliore rosso insanguina il torji; entrano le prime torce, portate da uomini vestiti d'un saio nero, calzati di paglia, con due alette di paglia nera alle tempie, che danno loro un ceffo mostruoso; sono gli abitanti di un villaggio vicino a Kyoto, che, da secoli, hanno il privilegio di accompagnare i funerali imperiali. E, veramente, sono i rozzi beccamorti dell'antichità”.
Forse Simoni stava descrivendo dei burakumin becchini di Kyoto, se fosse stato così più che un “privilegio secolare” sarebbe una “condanna generazionale”.

L'ottavo capitolo si intitola “Due italiano d'estremo oriente”
Simoni racconta brevemente le opere di Alfonso Gasco, ambasciatore italiano in Giappone. Spiegando la grande conoscenza che questi aveva del giapponese parlato e scritto, compreso lo scritto antico, fa delle considerazioni sulla difficoltà di imparare il giapponese, sa parlato che scritto.
L'altro italiano importante era il barone Vitale, che visse in Cina, ed era un conoscitore delle lingue della Cina.

Il nono e ultimo capitolo si intitola “Teatro giapponese”
Secondo Simoni in Giappone affermano che il loro teatro sta assimilando elementi occidentali, questo all'incirca nel 1912!
Simoni fa una analisi approfondita dei tre tipo di teatro: il “No”, il “Kabuki” e il Joruri.
Quest'ultimo era già allora un teatro morente, con un ultimo teatro ad Osaka, ed era fatto da marionette, ma non era un teatro per bambini, come quello dei nostri pupi siciliani.
Mentre il Kabuki (in quel periodo) era nel pieno della sua notorietà, essendo il teatro popolare. Il teatro No era indirizzato ai nobili. Simoni elenca i topoi classici di questi tre teatri, che nascono dal fondersi di storie shinto, buddhiste e del bushido. Di tutto questo Simoni fa una analisi accurata, che per la mia ignoranza del teatro giapponese (ma anche del teatro in generale) non posso apprezzare appieno, comunque interessante.



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