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venerdì 31 maggio 2013

La morte volontaria in Giappone


TITOLO: La morte volontaria in Giappone
AUTORE: Maurice Pinguet
CASA EDITRICE: Luni Editrice
PAGINE: 469
COSTO: 24 €
ANNO: 2006
FORMATO: 21 cm X 14 cm
REPERIBILITA': Reperibile su internet
CODICE ISBN: 9788874351428

Il libro è stato scritto nel 1984, quindi non è attuale, nonostante ciò rimane molto interessante, anche se, talvolta, l'atto del suicidio (le sue motivazioni e il contesto culturale), più che essere analizzato, è ammantato di una certa aura di glorificazione.
I primi capitoli prendono in esame il suicidio (e la quantità) in Europa in raffronto col Giappone, anche se i dati sono quelli degli anni 50/60.
Il saggio procede in maniera inversa, prima analizza l'attualità (fino agli anni 70) e poi analizza le radici della “cultura” del suicidio. In pratica la quasi totalità del libro prende in rassegna la storia del suicidio dall'antico Giappone alla fine dell'era Meiji.
Statisticamente i suicidi in Giappone sono opera di giovani ed anziani. Fin dai tempi antichi presso le comunità di contadini c'era l'usanza, in periodi di carestia, di portare il genitore infermo (quindi una bocca da sfamare non produttiva) nella foresta e di lasciarlo morire di freddo, il genitore era consenziente, il suo sacrificio avrebbe permesso ai suoi nipotini più possibilità di sopravvivere.
Seppur in forme diverse rispetto al passato, e in totale autonomia, gli anziani giapponesi, quando avvertono che sono di peso al resto della famiglia, usano il suicidio per farsi da parte.
Mentre per i giovani in età scolare è di solito il peso degli esami la molla che fa scattare il suicidio. La famiglia giapponese ha molto spesso un solo figlio, quindi su di esso gravano le responsabilità di riuscire negli studi, che, inoltre, incidono pesantemente sul bilancio famigliare. Soprattutto la madre giapponese spinge il figlio allo studio col concetto “ottieni per noi ciò che noi desideriamo per te”, lo stress e i fallimenti, oltre alla vergogna, spezzano l'equilibrio dello studente.
Stranamente nel libro non si fa nessun accenno ai suicidi dovuti a ijime, il bullismo, che nella scuola giapponese è ben radicato fin dalle elementari, e risale a prima della seconda guerra mondiale.
Shikarare jisatsu sono i suicidi provocati da un rimprovero. Il suicidio, in questo caso, oltre all'assunzione di responsabilità, può avere la valenza di vendetta verso colui che ha rimproverato, punendosi ci si vendica. Un classico di questa situazione è il rapporto tra la suocera e la nuora.
Mentre in occidente tendiamo culturalmente a giustificarci per gli errori commessi in Giappone ciò non è la pratica comune, se si sbaglia o non si raggiunge un obbiettivo può scattare il sekin jisatsu, il suicidio per senso di responsabilità, atto che non viene stigmatizzato dalla società.
I suicidi di solidarietà, oyako shinju, invece, non sono approvati dalla società giapponese, ma compresi. La forma più straziante di questi suicidi di solidarietà sono gli “ikka shinju”, il suicido famigliare. Cioè quando la madre decide di suicidarsi e non vuole arrecare dolore al figlio che dovrà vivere senza di lei, quindi lo sacrifica assieme a se. Questo comportamento capita anche in occidente, ma, oltre che meno numeroso, ha una diversa valenza e la società lo considera un atto malato.
Tra il 700 e il 1330 l'introduzione del buddismo permise una diminuzione dei suicidi. Uno dei motivi fu che il buddismo aumentò, rispetto allo shintoismo, la superstizione verso i morti, quindi un morto per omicidio o suicidio procurato poteva essere più temibile di un vivo.
Seppuku significa “ventre tagliato” in ideogrammi cinesi, mentre harakiri era il relativo termine volgare.
Intorno al 1100 il ventre era considerato la sede della vita e della volontà. Lo sventramento dimostrava al nemico il proprio coraggio nella sconfitta, e permetteva una fine eroica. Anche perché il seppuku non concede una morte veloce ed indolore, quindi l'atto diviene ancora più eroico.
Il primo seppuku viene fatto risalire a Yoshitsune nel 1189.
Intorno al 1220 si iniziò a praticare il seppuku assistito, kaizoebara: dietro l'esecutore una seconda persona, di solito un amico o un compagno devoto oppure un suddito fedele, dava il colpo di grazia troncando la testa del suicida con la spada.
Il seppuku collettivo nasce dalla sconfitta do Hojo Nakatoki nel 1333, al suo suicidio seguirono quelli di 432 suoi fedeli.
Esisteva anche il suicidio per inumazione volontaria, ad opera di religiosi buddisti. Questi, dopo essersi nutriti il minimo indispensabile per 1000 giorni, si facevano calare in un pozzo, dentro il quale morivano e si mummificavano allo scopo di raggiungere prima il nirvana, la pratica era chiamata ishikozume.
L'autorità dei samurai risiede nel seppuku. Il coraggio fisico è l'unica virtù che non si può simulare, i samurai dimostravano di non essere ipocriti o bugiardi avendo il coraggio di sventrarsi e abbandonare i beni terreni e gli affetti, in questo modo la loro guida era accettata da tutte le altre classi.
Il suicidio del samurai per fedeltà verso il proprio signore morto era chiamato oibara, ma questo non era un atto di servilismo, bensì di cieca abnegazione.
Esisteva il seppuku di rimostranza, kanshi. Per rimproverare il proprio signore di un atto errato, e per autentificare la propria critica (dargli più credito), oltre che per espiare la colpa di averlo criticato, si praticava seppuku.
Si faceva seppuku anche per dispetto, funshi, o per vendetta, munenbara. In modo da far ricadere la vergogna su chi li aveva offesi o arrecato loro un danno, ciò di solito portava al seppuku dell'autore dell'ingiustizia. Lo scopo di questa pratica era per lo Stato quello di diminuire le rivolte o le faide tra i clan di samurai.
Ma la motivazione più importante che spingeva i samurai al seppuku era dato dal senso di responsabilità, per punirsi delle negligenze, in modo da mantenere l'onore, proprio e della famiglia. Questo è il costume che, seppur in altre forme, è sopravvissuto nel Giappone contemporaneo.
La censura verso gli atti di negligenza erano così forti nella società giapponese che nel 1742 venne promulgata una legge che prevedeva la decapitazione per i guidatori di carretti che avessero provocato un incidente mortale!
Durante i 2 secoli e mezzo di pace Takugawa i samurai erano “disoccupati”, niente più guerre, come potevano essere ancora utili? Come potevano evitare di divenire dei semplici parassiti? L'esempio, la loro funzione fu quella di dare un esempio di rettitudine alle altre classi sociali. Se gli appartenenti alle altre classi avessero infranto il codice morale della società i samurai li avrebbero puniti, ma per essere credibili guardiani dovevano essere essi stessi la prima vittima di questa regola. E più il samurai si mostrava crudele verso se stesso, più sapeva che le altre classi sociali lo avrebbero approvato e rispettato.
Il codice penale Tokugawa prevedeva 5 punizioni per la casta dei guerrieri: arresti semplici (hissoku); arresti di rigore (heimon); reclusione (chikkyo); radiazione dalla lista dei samurai (kaieki); pena capitale mediante seppuku (tsumebara).
Lo tsumebara aveva un rituale ben definito, che terminava con l'amputazione della testa del condannato appena questi si fosse sventrato. Durante il 17esimo secolo si richiedeva agli kaishaku (coloro che amputavano la testa) di lasciare un lembo di carne per evitare che il capo rotolasse a terra, era considerata una maniera sgraziata. L'incarico di kaishaku era di solito portato a termine da un amico o un fedele servitore, ma era un'incombenza poco gradita. Nell'Hagakure si legge che se il compito del kaishaku era portato a termine bene non si guadagnava nessuna gloria, mentre se fosse stato fatto male ne sarebbe derivata solo vergogna. Per questo motivo i samurai, nella prospettiva di essere chiamati in futuro a fare il kaishaku, si “allenavano” sui condannati a morte, decapitandone più che potevano.
Al suicidio per amore, shinju, è dedicato tutto il capitolo 10 (“Amare e morire”). In questo capitolo si narrano quasi sempre amori nati nelle case di prostituzione, tra samurai o mercanti e cortigiane.
La restaurazione Meiji può essere considerata l'estensione dell'etica del suicidio dalla classe samuraica a tutta la società giapponese. Mentre il samurai si sacrifica per il suo signore, il suddito giapponese è pronto ad immolarsi per l'imperatore.
L'era Meiji è raccontata attraverso il seppuku di Saiko Takamori, che si suicidò nel 1887 dopo aver capeggiato l'ultima rivolta dei samurai contro il nuovo Stato imperiale, e di Nogi Maresuke, che si suicidò nel 1912 dopo la morte dell'imperatore Meiji.
Il capitolo che porta alla seconda guerra mondiale, e alla sua fine, analizza i suicidi (non sempre portati a termine) dei terroristi nazionalisti di destra che uccidevano i governanti giapponesi. I suicidi della popolazione atterrita dall'imminente invasione statunitense. I suicidi dei soldati giapponesi, in particolare dei kamikaze, cioè delle missioni militari deliberatamente suicide, jibaku. Infine i suicidi dei comandanti dell'esercito nipponico dopo il discorso di resa di Hirohito.
L'ultimo capitolo analizza uno dei suicidi più famosi del Giappone contemporaneo, quello di Mishima Yukio avvenuto il 25 novembre 1970.
In sostanza il saggio cerca di far comprendere che in Giappone togliersi la vita è ancora considerato un atto cosciente, una soluzione con una dignità, una scelta autonoma, non per forza dovuta ad uno squilibrio mentale. Scelta che la società comprende, non incita, ma non condanna a priori. Mentre in occidente è divenuto un comportamento compiuto solo dai folli, che la società stigmatizza e reprime (a livello religioso).


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