TITOLO: Le icone di Hiroshima,
fotografie, storia e memoria
AUTORE: Annarita Curcio
CASA EDITRICE: Postcart
PAGINE: 131
COSTO: 12,5€
ANNO: 2011
FORMATO: 20
cm X 12 cm
REPERIBILITA': Ancora presente nelle librerie di
Milano
CODICE ISBN: 9788886795678
Nell'introduzione
l'autrice spiega che ha operato una analisi sulla valenza nel dopo
guerra delle
immagini (fotografia-icona) dell'atomica su Hiroshima. La foto del fungo atomico è diventata l'icona di un evento
storico mai più ripetutosi, il cui dramma, per motivi differenti,
Usa e Giappone hanno preferito sottacere o dimenticare. Oltre alla
foto-icona del fungo atomico di Hiroshima sono analizzate quelle
della bambina Sadako Sasaki, immagine assurta a simbolo degli
hibakusha, e quella del Genbaku Dome, simbolo della potenza
distruttrice atomica. Annarita Curcio affronta anche il contesto
storico del periodo finale del conflitto, e di quello appena
successivo, con l'occupazione del Giappone e la strategia censoria
americana riguardo gli effetti delle due atomiche sulla popolazione.
A mio
avviso, nell'esposizione dei fatti storici, vengono prese in toto le
parti del Giappone, trasformandoli in vittime inermi della
spietatezza statunitense, dimenticando (tranne in una breve parte
finale del libro) che è esistito anche un “pre-sgancio delle
atomiche”. Cinesi, filippini, coreani, taiwanesi, indonesiani etc
etc, loro furono le vittime di quel periodo storico in Asia. Mi è
parso che, con la medesima operazione giapponese, si trasformi la
tragedia atomica in espiazione dei crimini commessi dal Giappone.
Inoltre vengono considerati infondati i timori Usa di un protrarsi
della guerra, e dell'ulteriore tributo americano di vite umane
necessaria ad occupare il “sacro” suolo nipponico. In merito a
questo va ricordato con quanto accanimento i giapponesi difesero Okinawa, che non
consideravano parte del sacro Giappone, infatti dopo la guerra lo
“regalarono” agli Usa per qualche decennio ( Il mito dell'omogeneita giapponese, storia di Okinawa ), si può immaginare come avrebbero difeso Tokyo.
Personalmente, per una visione storica più allargata delle
motivazioni dei due bombardamenti subiti dal Giappone, consiglio la
lettura anche del saggio "Hiroshima e il nostro senso morale".
Capitolo
1: L'icona del fungo atomico: come l'America ha proibito la libertà
dell'informazione
Nei
giorni e nelle settimane successive alle due detonazioni atomiche
numerosi fotografi e cineoperatori si recarono ad Hiroshima e
Nagasaki per testimoniare l'accaduto, gran parte di quel materiale fu
decretato segreto dagli Usa, e mai pubblicato, in parte distrutto. La
foto scelta dai vertici governativi e militari statunitensi come
simbolo di Hiroshima fu il fungo atomico ripreso dall'alto, il valore
di questa immagine era duplice: testimoniava l'effettiva esplosione
atomica, ma ne nascondeva gli effetti devastanti sulla popolazione,
lasciandoli solo immaginare.
Nascondendo
in quegli anni le devastazioni delle due atomiche gli Usa evitarono
il rischio di una qualche riprovazione morale verso la loro
decisione, ed impedirono di considerare pienamente la gravità della
corsa agli armamenti atomici, infine evitarono il rischio di essere
accusati di crimini di guerra.
L'autrice
riepiloga troppo succintamente i fatti storici da Pearl Harbor ad
Hiroshima e Nagasaki, meglio sarebbe stato, piuttosto che farlo così,
saltare questo riassunto storico.
Sui
media statunitensi la resa incondizionata del Giappone prese il
sopravvento sulla notizia della bomba, e quando i reporter iniziarono
a testimoniarla le immagini erano sempre prese dall'alto, mai scatti
fotografici sui superstiti, inoltre i giornalisti non specificavano
negli articoli il numero di morti e feriti. Uno dei pochi giornalisti
che informò il lettore Usa fu John Hersey, che scrisse un reportage
da Hiroshima: Hiroshima.
Molto
interessante la parte in cui l'autrice spiega qual è il meccanismo
che trasforma una semplice foto in strumento per il consenso
popolare. Vine proposta una breve storia della fotografia di guerra
dalla guerra di Crimea del 1853 alla seconda guerra mondiale, per poi
passare ad esempi concreti di propaganda e censura militare riguardo
le foto di guerra.
E'
ben spiegata la vicenda dei due giornalisti Wilfred Burchett e
William Laurence. Il primo denunciò la nuova “peste radioattiva”
con articoli sul campo, il secondo (che era a bordo di uno degli
aerei del bombardamento su Nagasaki) smentì tutte le notizie
riportate Wilfred Burchett, vincendo anche il premio Pulitzer, ma si
scopri che era stipendiato dal ministero della guerra.
Sempre
per spiegare l'importanza delle foto in guerra è narrata la storia
della foto “Raising flag on Iwo Jima.
Capitolo
2: Il Giappone e le sue icone: Sadako Sasaki e il Genbaku Dome
All'inizio
del secondo capitolo vengono illustrati gli effetti delle bombe
atomiche. Si passa quindi ad elencare i vari documentari che furono
girati in quei luoghi nei giorni successivi ai bombardamenti, tra cui
uno giapponese, tutti decretati “top segret” e riscoperti solo
negli anni 70:
A
pagina 68, sempre nel raccontare gli sforzi di vari giornalisti per
non far andar persi quei documentari desecretati negli anni 70 che
giacevano negli archivi Usa, l'autrice scrive:
“A
questo punto entra in scena il famoso studioso e critico
cinematografico americano Eric Barnouw, il quale, in una mattina
d'estate del 1968, riceve una mail(?!) di una sua amica...”.
Non
so, una mail nel 1968 mi pare un po' futuristica come cosa.
In
uno dei paragrafi del capitolo viene dato conto della censura operata
dagli Usa in Giappone, ma anche dell'autocensura nipponica nel
periodo 1945/49, per minimizzare gli effetti delle atomiche, censura
che fu applicata a tutti i campi informativi e delle arti. Sono
elencati autori ed opere letterarie che subirono una censura parziale
o totale.
Il
paragrafo 4 è dedicato (finalmente) ad una delle foto-icona, quella
della piccola Sadako Sasaki, che nell'agosto del 1945 aveva solo due
anni, ed aera a 2 km dall'epicentro atomico.
La
foto fu scattata dal suo maestro il 16 marzo 1955, il giorno della
consegna dei diplomi, poco prima che la bambina, già malata, fosse
ricoverata in un ospedale della Croce Rossa, morì il 25 ottobre
1955. L'autrice spiega cosa trasformò quella semplice foto, una
delle tante di bambini e bambine malate di leucemia “atomica”, in
icona pacifista.
L'altra
foto-icona è quella del Genbaku Dome, lo scheletro di cemento ed
acciaio dell'unico edificio rimasto in piedi nella zona della
deflagrazione.
Capitolo
3: La memoria e l'oblio
Nel
terzo capitolo l'autrice cerca di “mettere in luce le
contraddizioni tra la storia con la “s” maiuscola e la storia di
quegli uomini coinvolti loro malgrado nella guerra; emergerà un
conflitto insanabile tra gruppi antagonisti: gli hibakusha da un
lato, i veterani americani dall'altro.”.
A
tale scopo viene presentato un fatto accaduto nel 1994 in America
riguardo una mostra per il 50esimo anniversario dei bombardamenti
atomici. La mostra, che inizialmente doveva celebrare l'aeronautica
Usa con l'esposizione dell'Enola Gay restaurato, iniziò a prevedere
anche parti in cui si mostrava la distruzione causata dalle bombe.
Questa seconda decisione scatenò così tante polemiche che la
mostra, alla fine, venne ridotta a poca cosa, rinunciando sia
all'aereo che alle testimonianze.
Sul
versante nipponico viene evidenziato come la scelta nazionale fu,
invece, l'oblio di Hiroshima e Nagasaki.
Mi
permetto, di nuovo, di commentare una frase presente a pagina 105,
inerente il periodo della ricostruzione post bellica giapponese:
“...riescono in tempi relativamente brevi a ricostruire un paese
devastato, facendo affidamento su quelle basi liberali e democratiche
in parte già preesistenti.”.
Di
libri storici sul periodo prebellico ne ho letti un po', e
francamente mi chiedo a quali “basi liberali e democratiche in
parte già preesistenti” l'autrice si riferisca. I concetti
liberali e democratici, ammesso e non concesso fossero patrimonio
della popolazione e non solo di una élite minoritaria, erano già
stati da tanti anni estirpati dal regime imperiale. I pochi
oppositori o erano già stati uccisi, oppure avevano abiurato le loro
idee “liberali e democratiche” per abbracciare in toto
l'ideologia nazionalistica militarista tramite il “tenko”
(conversione o abiura politica). Il tenko funzionava così bene che
al momento del crollo del regime nelle carceri giapponesi i
prigionieri politici erano pochissimi.
Riguardo
agli hibakusha è raccontato di come gli americani li abbandonarono,
limitandosi a visitarli per trarre dati scientifici sull'effetto
della bomba, senza neppure curarli. Io aggiungo che bisogna ricordare
che i governi Usa fecero una cosa simile agli stessi soldati
americani che venivano esposti alle esplosioni atomiche su suolo
americano, solo dopo molti decenni questi soldati ebbero il diritto
ad un risarcimento, e quando si ammalavano nessuno gli rivelava a
causa di cosa si erano ammalati, né veniva fornita loro una cura
specifica. Questo, ovviamente, non giustifica il trattamento subito
dagli hibakusha, però rende l'idea di quanto disinteressati alla
salute della gente erano questi governanti e questi militari, la cui
unica preoccupazione era il segreto militare e lo studio degli
effetti delle radiazioni sulla salute.
Erano
delle semplici cavie i loro connazionali, figuriamoci gli abitanti di
una nazione sconfitta.
Non
diversamente si comportò il governo giapponese, che finché vigeva
l'occupazione Usa ignoravano i sopravvissuti, e in seguito
ritardarono il più possibile provvedimenti in loro aiuto. Ma la
stessa popolazione giapponese mise all'indice gli hibakusha,
trasformandoli in nuovi burakumin, a causa dei timori che la futura
prole di un hibakusha potesse essere malformata o ammalata. L'effetto
fu che molti sopravvissuti alle due bombe atomiche dovettero
trasferirsi in altre zone del paese, cercando in ogni modo di
rivelare da dive provenissero.
Nonostante
l'opera di rimozione degli effetti di Hiroshima e Nagasaki ogni tanto
qualcosa tornava a galla nella società giapponese, magari in forme e
contesti differenti, come per Godzilla, o per il film del
regista Shohei Imamura.
Molto
interessante la considerazione di Annarita Curcio secondo la quale
gli hibakusha, a differenza degli ebrei che hanno potuto trasmettere
ai figli il ricordo del loro olocausto, non hanno avuto neppure
questa possibilità. In quanto molti bambini e bambini morirono senza
poter diventare adulti, molte donne abortirono a causa delle
radiazioni, infine i sopravvissuti avevano difficoltà a sposarsi,
quindi venne a mancare proprio tutta una generazione di figli degli
hibakusha. Inoltre le testimonianze degli hibakusha erano sgradite al
governo, in quanto minavano l'armonia nazionale e i buoni rapporti
con il nuovo potente alleato, con cui andava combattuto il nuovo
nemico sovietico.
Finalmente
a pagina 114 e 115 si riportano quali furono i crimini di guerra del
Giappone, ricordando, per esempio, la regola dei “3 tutto” che i
militari attuavano sistematicamente nei territori occupati: “uccidi
tutto, brucia tutto, saccheggia tutto”.
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