TITOLO: Gli dei hanno tradito
AUTORE: Mirko Ardemagni
CASA EDITRICE: Garzanti
PAGINE: 400
COSTO: 20€?
ANNO: 1948
FORMATO: 21 cm
X 14 cm
REPERIBILITA': Reperibile su internet
CODICE ISBN:
Mirko
Ardemagni faceva parte del corpo diplomatico italiano in Giappone, vi
visse proprio nel periodo che racconta, quindi il suo scritto è
pieno di aneddoti in gran parte vissuti direttamente (e spesso
nell'alta società nipponica), ma è anche pregno di parecchi
pregiudizi razziali e valutazioni storiche errate. I primi sono da
ascriversi ad un alto livello di snobismo borghese/nobile verso il
popolo, oltre ad un vero e proprio razzismo, che traspare da certi
suoi giudizi sia sui giapponesi e, per esempio, sugli ebrei (che non
sarebbero in alcun modo il soggetto di questo libro...). Inoltre si
intuisce che l'autore fosse in primis un anticomunista viscerale, ed
appena di meno antiamericano, ergo scrive tutto in funzione di questi
suoi orientamenti politici. Le valutazioni storiche errate sono in
parte da addebitarsi alla non conoscenza di alcuni fatti storici
venuti alla luce negli anni e nei decenni successivi, ed in parte ad
una grande mancanza di obbiettività sui fatti storici che avrebbe
dovuto conoscere, sovente neppure citati.
Spesso
ho avuto l'impressione che l'autore rimpianga un Giappone che era,
probabilmente, il luogo ideale per un ricco nobil uomo con servitù,
in quanto questa viveva per il suo padrone, servendolo e reverendolo
come principio di vita.
L'autore
passa da dei giudizi agiografici sul Giappone e i giapponesi ad dei
veri propri insulti razziali, tanto che pare siano due gli autori...
Infine
il tema del capitolo è spesso trattato un po' caoticamente, saltando
da un argomento all'altro, da un aneddoto all'altro, senza un filo
ben preciso.
Il
libro resta interessante, ma è preferibile leggerlo se si ha una
minima infarinatura dei fatti storici tra il 1900 e il 1948, ed anche
sulla vita comune nella società giapponese dello stesso periodo,
perché talvolta rimane il dubbio di leggere delle castronerie.
Uomini
e vulcani
Il
capitolo è dedicato all'ambiente: vulcani; tifoni; terremoti;
boschi; giardini; etc.
Tante
considerazioni sulle avversità e sui piaceri che la natura ha
imposto ai giapponesi, e che sono la causa del loro diverso approccio
verso l'ambiente e non solo. Il discorso si allarga presto anche ad
altri argomenti, come la casa giapponese, da notare che nelle sue
tante divagazioni l'autore afferma che il nome “ainu” sia un
termine dispregiativo.
L'arcipelago
delle termiti
Il
tema è il sovrappopolamento del Giappone, iniziato raccontando di
come gli americani stavano (libro scritto nel 1948) spendendo cifre
astronomiche per rimpatriare i circa 6 milioni tra soldati e civili
andati a colonizzare i territori conquistati. La cosa curiosa è che
il concetto è scritto in modo tale da sembrare che gli americani
stiano forzando il ritorno dei giapponesi da paesi in cui erano ben
accetti... se vi fossero restati sarebbero stati uccisi dai vari
eserciti nazionali... quindi gli Usa li stavano salvando.
Poco
dopo si può leggere che uno dei motivi che mossero il Giappone alla
guerra, cioè all'invasione di nazioni pacifiche, fu la
sovrappopolazione. Di certo fu uno dei motivi, ma come spesso nel
libro pare sia una giustificazione a tutto ciò che l'esercito
imperiale commise.
Sempre
commentando l'alto tasso demografico, sommato alla miseria del
dopoguerra, si afferma che nonostante ciò “non si vedono neppure
oggi mendicanti”. Forse l'autore non si recava mai dove c'erano i
poveri, forse non ha mai visto un film di Kurosawa di quel periodo, e
di certo non avrà potuto vedere il film d'animazione “Una tomba
per le lucciole” di Isao Takahata.
E'
spiegato che l'aumento della popolazione fu dovuta anche alle norme
igieniche poste in atto per evitare le epidemie, e ci informa che
l'usanza di togliersi le scarpe entrando in casa rientra in queste, e
nacque per questo motivo anti epidemia.
La
storia formatrice del carattere
Il
capitolo comincia con varie considerazioni dell'autore sul rapporto
che i giapponesi hanno con la morte, che lo porta ad asserire che una
delle caratteristiche del popolo giapponese è il pessimismo, causa
dell'elevato numero di suicidi. Tutto questo pessimismo è dato anche
dal clima, inoltre il pessimismo cresce assieme al corpo del
giapponese. Il bambino giapponese è l'emblema della felicità e
della floridezza giovanile (forse non esisteva ancora la piaga dei
suicidi minorili), ma ad un certo punto lo sviluppo fisico passa ad
una precocissima decadenza fisica. E' indubbio per l'autore che i
bambini giapponesi siano tra i più belli dell'umanità, tanto quanto
sono brutti da adulti.
Riporto
interamente alcune riflessioni dell'autore:
“Come
è convinzione scientifica che il colore delle diverse razze sia in
rapporto diretto con la pigmentazione della pelle, all'influenza
millenaria del sole e della latitudine, così non v'è dubbio che
alla base del color giallo dei giapponesi, come del resto dei cinesi,
stia una disfunzione epatica dipendente dal clima. Da questa
disfunzione del fegato, che è diventata una conformazione naturale,
consegue il carattere chiuso d questa gente, il rimuginare interno
delle passioni, il covare segreto dell'odio e dell'amore”.
Quindi
si passa ad una analisi storica riguardante l'assoggettamento da
parte degli shogun verso gli imperatori, spiegando che la mancanza di
sincerità dei giapponesi sia nata da secoli di usurpazione del
potere da parte dei primi verso i secondi. Infatti era la norma
fingere che comandasse l'imperatore mentre era lo shogun ad
esercitare il potere reale, quindi l'abitudine a fingere si è
trasferita a tutte le abitudini nipponiche.
Altra
caratteristica dei giapponesi è la diffidenza, nata per evitare di
essere uccisi per aver detto una parola di troppo ad uno sconosciuto
di cui si ignorava lo status sociale. E' spiegato come i bagni
pubblici furono istituiti dagli shogun allo scopo di spiare i
sudditi, infatti durante la consuetudine del bagno era facile
lasciarsi andare a confidenze personali, immediatamente ascoltate
dalle spie shogunali.
Questo
portò (riporto il testo) “alle conseguenze moderne: alla
diffidenza estrema di cui si è armato il popolo giapponese,
all'ermetismo del suo carattere, alla paure delle spie, all'abitudine
di parlare senza guardare negli occhi il prossimo”.
Il
dominio di sé
Secondo
l'autore “il dominio di sé” dei giapponesi è spesso equivocato
dagli occidentali, e nasce dalle turbolente epoche storiche passate,
in cui l'essere cauti poteva salvare la propria vita. Una parola di
troppo, specialmente se pronunciata di fronte ad una persona di cui
no si fosse certi dell'attività e del rango, poteva costare la vita.
E' da quel periodo storico che nasce l'abitudine linguistica
nipponica di non fare mai affermazioni categoriche, ma sempre
indeterminate. Ne consegue l'usanza di non dar mai torto al prossimo,
non mostrare dissenso, ma anche fare in modo che il prossimo non sia
mai messo in condizioni di dover esprimere dissenso. In questo
contesto l'autore spiega l'importanza della riservatezza anche in
campo amoroso. Tanto che il bacio era sconosciuto finché non
arrivarono gli occidentali, e che le ragazze giapponesi restavano
sgomente davanti al tentativo dei soldati americani (“bianchi e
negri”...) di baciarle.
L'amore
della regola
Per
porre in atto “il domino di sé”, allo scopo di di impedire lo
sfogo degli istinti ed avere una società armoniosa, è necessario il
rispetto di regole.
Ad
esempio di ciò ci si dilunga sulla cerimonia del te, raccontandone
la storia e l'evoluzione. Nacque per mantenere svegli i monaci zen
durante le litanie notturne: Verso il 1200 servì come surrogato per
combattere il vizio dell'alcol. Durante le lotte feudali permetteva
ai daimyo, tramite i suoi rituali, di riunirsi ed organizzare piani
militari in segreto. In seguito assunse un aspetto più estetico e
mondano. Infine (nel periodo in cui scrive l'autore) fu insegnata
alle donne allo scopo di educarle a dominare i propri istinti e
subordinarli all'osservanza di norme prestabilite.
La
serietà della vita
Per
spigare come e quanto siano seri i giapponesi nella vita l'autore
inizia col raccontare l'impegno dei soldati nipponici ad essere
combattenti terribili come il loro dio Hachiman, lo sforzo di
“serietà” riuscì purtroppo fin troppo bene... Conseguenza
diretta di ciò era affrontare la morte in guerra senza paura, anzi,
ricercandola per il bene della nazione. Ad ulteriore esempio della
“serietà” giapponese è portata ad esempio la consuetudine al
suicidio rituale. In tutto il libero l'autore quasi idolatra i
giapponesi e le loro usanze, poi, di colpo, passa a giudizi come
questo:
“I
giapponesi, che sono il popolo al quale il resto del genere umano ha
più costantemente irriso, hanno un'intelligenza indubbiamente al di
sotto di quella dei popoli bianchi. Essi non hanno quella vivacità e
quella prontezza che sono le caratteristiche delle genti
mediterranee. La loro fantasia è circoscritta, le loro reazioni
talmente ritardate da farceli apparire privi di riflessi... I
giapponesi sono ottusi: Essi amano camminare con il paraocchi sui
binari obbligati. Ma hanno, come non ha nessun altro popolo, volontà
costanza, serietà di propositi, passione del dovere, spirito di
sacrificio, amore della disciplina, istinto dell'ordine. Il comando
che scende dall'alto non è soltanto obbedito, ma sentito come un
precetto religioso, ascoltato come una divinazione”.
Nel
raccontare uno dei suoi tanti aneddoti sulla serietà nipponica
l'autore spiega che durante il terremoto di Tokyo del 1923 non ci
furono rincari delle merci, nessun accenno al massacro dei cittadini
coreani, accusati ingiustamente di sciacallaggio.
Nell'illustrare
la serietà nipponica è spiegato il perché MacArthur “stia
riuscendo” facilmente a sottomettere i bellicosi giapponesi: sono
obbedienti.
La
sete di sapere
Curiose,
col senno di oggi, alcune considerazioni dell'autore sulla brama di
sapere dei giapponesi e di accumulare informazioni, infatti una delle
caratteristiche degli otaku è proprio quella di accumulare dati
sull'argomento preferito (anime, manga e videogiochi). Oltre al fatto
che gli esami in Giappone sono considerati da tutti unicamente
nozionistici.
Scrive:
“Sapere, sapere tutto di tutti, impadronirsi del segreto degli
altri, essere sicuri di non sbagliare grazie ad una buona raccolta di
informazioni, conoscere tutto quanto va conosciuto per proprio
profitto, immagazzinare più che si può dentro se stessi e smaltire
il meno possibile... Per essi il plagio non è affatto un'azione
illegale: E' talmente una tendenza istintiva il copiare, che non
riescono a capire il concetto della proprietà intellettuale, né il
valore convenzionale dei brevetti.”
L'autore
racconta che a Tokyo fu tenuta una mostra su Leonardo, che ebbe un
successo strepitoso, il motivo fu che in una sala della mostra si
spiegava che Leonardo era nato in Asia (argomentato dal professori
universitari e commentato sui giornali), fatto a cui l'autore cercò
in tutti i modi di opporsi. Questa non era una situazione limite,
c'erano libri di scuola in cui si spiegava che Mosè era nato in
Giappone, e che Cristo, seppur nato in Terra Santa, finì i suoi anni
in Giappone.
Come
per tutto il resto del libro dal tema iniziale si passa a varie
considerazioni accompagnate da aneddoti. Si parla degli ainu
segregati, del nazionalismo, del senso di superiorità nipponico, dei
tassisti giapponesi che non chiedono informazioni pur non conoscendo
un indirizzo. In tutta questa confusione si riesce comunque a
percepire la riuscita opera di indottrinamento nelle scuole del
popolo giapponese effettuata dal regime imperiale fascista.
Una
grande confraternita
Nel
capitolo si rappresenta la società giapponese come un grande
monastero, secondo le cui regole si vive una vita frugale,
rispettando gli ordini superiori, avendo sobrietà di costumi e
pacatezza nei comportamenti. Anche quando, come nel 1945, nel giro di
pochi giorni gli americani passarono da nemici mortali considerati
pronti a massacrare l'intera popolazione, a salvatori della patria.
Sulle
responsabilità della trasformazione di una intera società in
soldati pronti ad uccidere ed uccidersi l'autore pare molto in
imbarazzo. Passa dallo scaricabarile internazionale (colpa originaria
degli Usa), a quello interno tra i vari gruppi sociali, oppure
assolve in toto tutte le classi sociali, addebitando la colpa a
sparute minoranze militariste, di cui non fa mai parte, curiosamente,
la sua cerchia di amici nipponici. Ne è un esempio questo capitolo,
secondo cui il regime nipponico fu generato dai militari e dai
proletari, mentre l'aristocrazia e la borghesia giapponese era
contraria... In pratica l'autore assolve la sua classe
d'appartenenza, scaricando la responsabilità sui poveri, proletari,
contadini e militari (che provenivano in gran parte dalla massa
contadina).
Nella
solita confusione aneddotica l'autore se ne esce con una perla che
conferma la mia intuizione appena esposta: racconta che il barone
Takahara Mitsui (signore dell'omonima zaibatsu e amico dell'autore)
nel 1940 gli confessò che a casa sua mancava il carbone, nonostante
la Mitsui possedesse il 90% del carbone dell'impero. Tutta la sua
famiglia soffriva il freddo per l'inverno, quindi l'autore gli offrì
di fargli arrivare del carbone dal suo fornitore... il tutto per
dimostrare quanto fosse etico il barone Mitsui, che non approfittava
dei suoi beni, peccato per i morti che il suo impero commerciale
causò.
Un
mondo a rovescio
Il
classico capitolo sulle contraddizioni, superstizioni ed eccentricità
dei giapponesi rispetto a noi occidentali, che poi sono le
osservazioni che l'autore riporta (sia in positivo che in negativo)
in tutto il libro.
I
quattro arrembaggi all'Impero Eremita
Anche
questo capitolo mi ha lasciato perplesso, in parte per le
informazioni date, ed in parte per ciò che vuole sottintendere. E'
spiegato che il Giappone non ha mai invaso altre nazioni fino alla
fine del 1800, anzi, che regolarmente nella sua storia ha subito (un
po' come tutti i paesi del mondo...) tentativi di invasione, volendo
porla come nazione vittima. Mi pare strano che l'autore, per esempio,
non sapesse delle ripetute invasioni della Corea prima del 1800.
I
quattro arrembaggi subiti dal Giappone furono:
Quando
nel 600 DC il re di Corea Pakche inviò in Giappone ambascerie che
introdussero il buddismo (quindi un'invasione culturale, non armata);
Nel
1274 quando Kubilai Khan tentò per due volte di invadere il
Giappone;
Il
terzo fu l'arrivo dei missionari cristiani e commercianti portoghesi
nel 1600 (altro attacco non militare);
Il
quarto fu l'arrivo delle navi nere del commodoro Perry nel 1853.
Addirittura
l'autore incolpa gli Usa per ciò che avvenne durante tutta la prima
metà del 1900, perché con l'atto violento di Perry avevano
“inoculato” il germe del futuro conflitto del pacifico. E qui si
torna al tentativo di deresponsabilizzare il Giappone.
Oltre
i confini tutto è ammesso
Con
l'arrivo delle navi nere di Perry si scatenò il ciclone che spazzò
via il bakufu shogunale, sostituito dal ritorno al potere dopo 7
secoli dell'imperatore Meiji. Capitolo piacevole, pieno di racconti
su quei grandi sconvolgimenti sociali che portarono alla
modernizzazione forzata di un intero popolo. Sono raccontate anche le
guerre contro la Cina (la prima) e la Russia, e l'inizio
dell'espansionismo nipponico, fino alla seconda guerra mondiale.
La
grande illusione
In
questo capitolo sono analizzate le cause della disastrosa guerra
contro gli Usa. Valutando come primo errore, di una lunga serie,
l'ulteriore espansione in Manciuria del 1931, che mise la nazione
apertamente contro gli interessi di Inghilterra ed Usa.
Secondo
l'autore se il Giappone si fosse fermato alla Manciuria cinese,
trasformandola in baluardo anti sovietico, forse le potenze
anglo-americane avrebbero anche potuto accettare il dato di fatto, ma
il Giappone non seppe fermare la sua sete di conquiste.
In
questa analisi, sempre tendente a giustificare l'espansionismo
nipponico, si nota la solita litania sull'imperatore pacifista, e
torna di nuovo l'idea che la borghesia nipponica fu vittima delle
scelte “della massa ignorante del popolo e dell'esercito”. Come
se la ricca borghesia nipponica non ebbe i suoi lauti guadagni
dall'invasione della Manciuria.
Spesso
l'autore chiama il popolo “ignorante”, e la colta borghesia ed
aristocrazia che seguì i vari Hirohito, Mussolini ed Hitler cosa
furono? Non certo ignoranti, furono avidi e vili.
Sono
analizzati i contrasti tra la fazione giapponese che spingeva verso
l'espansione a nord (contro i sovietici, appartenenti all'esercito) e
quella che auspicava l'espansione a sud (contro gli anglo-americani,
appartenenti alla marina).
E'
brevemente accennata l'azione di spionaggio a favore dei sovietici ad
opera di Sorge (italianizzato in Riccardo), incredibilmente non si
accenna alla figura più importante di questo spionaggio: il
giapponese Ozaki Hotsumi.
La
ricostruzione storica delle fasi prima dell'attacco a Pearl Harbor
sono molto filo nipponiche, forse per la mancanza di documenti
storici affidabili quando fu scritto il libro.
Amok
L'autore
racconta le misere condizioni di vita della popolazione nipponica dal
1943 alla fine della guerra, oltre allo scioccante passaggio
dall'euforia delle continue vittorie a catena alla depressione
popolare per le ritirate (seppur non ammesse) continue.
Raccontando
delle privazioni del personale diplomatico (recluso dopo la resa
italiana, e qui si dovrebbe fare una differenziazione tra gli
italiani che aderirono alla Repubblica di Salò ed ebbero un
trattamento umano, e quelli, come Maraini e la sua famiglia, che non
lo fecero, e furono trattati come bestie dai carcerieri
giapponesi...) narra un episodio riguardante Fosco Maraini:
“Unico
integrativo alimentare degli internati civili, sufficiente per non
morire, erano le lumache che andavano cacciando sotto la pioggia come
sonnambuli alle prime luci dell'alba, attorno alla casa. Uno di essi,
Fosco Maraini, studioso bizzarro e poeta geniale che alcuni anni
prima era andato a vivere in mezzo agli Ainu nell'estremo nord
dell'arcipelago, un giorno, al colmo dell'esasperazione e per
insegnare ai giapponesi come si fa a trattare il prossimo, decise di
dare da mangiare un po' di se stesso ai secondini. E amputatosi con
un colpo di accetta il dito mignolo della mano sinistra, proprio come
fece il capo del Dragone Nero, lo lanciò al capoguardia dicendogli:
“Ecco, fatevene un sukiaki!”, poiché il sukiaki è la carne ai
ferri di cui gli indigeni vanno ghiottissimi.
Parve
che dovesse succedere il finimondo al campo quella volta, ma il gesto
impressionò talmente le guardie che cominciarono a pensare che tutti
gli italiani potessero essere come il venerato Toyama. E il
trattamento materiale e morale migliorò considerevolmente”.
Quindi
l'autore passa a raccontare, e forse avrebbe fatto meglio a
soprassedere, sulle privazioni di un'altra parte dei diplomatici, di
cui lui era parte, trasferiti nella località montana di Karuizawa.
Privazioni minime rispetto alle condizioni di vita del popolo
giapponese e di altri internati, ma comunque non consuete per quei
nobili e borghesi europei. In questa esposizione si dilunga assai, il
tutto stride con le reali condizioni di vita del resto della
popolazione...
Il
capitolo si conclude con il racconto dei fatti accaduti nell'agosto
del 1945.
Tokio:
primo e dopo
Viene
raccontata come fluiva la vita a Tokyo prima e dopo la guerra. Le
differenze tra la Tokyo imperiale anti americana e quella democratica
filo Usa, dall'architettura, alla viabilità, passando per i mezzi
pubblici, i negozi, i luoghi di divertimento.
La
lotta contro lo scintoismo
Nel
raccontare i successi di MacArthur, e di quanto i giapponesi gli
furono grati, l'autore si sofferma su ognuna delle prime tre misure
(esposte negli altri due capitoli finali) che egli prese per cambiare
i giapponesi: soppressione dello shintoismo come religione di stato;
abolizione del militarismo; scioglimento delle zaibatsu.
Il
mito della discendenza diretta dell'imperatore dalla dea del sole
Amaterasu, e quindi di tutto il popolo giapponese (unico popolo al
mondo), fu sfruttata dai nazionalisti per giustificare il diritto dei
giapponesi ad invadere e comandare le altre nazioni asiatiche, e non
solo. Un altro aspetto della superiorità di una “razza” rispetto
alle altre.
La
fine del militarismo
All'inizio
del capitolo è raccontato che in principio lo spirito con cui gli
americani entrarono nel Giappone sconfitto fu di vendetta. I soggetti
principali di questa vendetta erano Hirohito e la famiglia imperiale,
tra le tante cause annoverate dall'autore ce n'è una assai
particolare (riporto il testo):
“...dalla
sobillazione degli ebrei ad effettuare rappresaglie e a compiere
persecuzioni...”. No comment.
Il
capitolo è incentrato sull'opera di MacArthur atta ad estirpare il
militarismo, uno degli aspetti atavici dei giapponesi. E' raccontata
la smobilitazione dei soldati nipponici e il disarmo dell'esercito,
avvenuta fin con l'obbligo di consegnare le spade da samurai che
tante famiglie avevano ereditato dagli avi.
In
questa spiegazione l'autore si lancia in considerazioni ormai
divenute consuete alla fine del libro:
“I
militaristi indigeni non furono affatto criminali intenzionali. Essi
furono bambini ingenui, che a forza di vivere chiusi in se stessi e
di rimasticare a memoria le vecchie lezioni relative allo loro
marziali virtù si esaltarono al punto da credere che avrebbero
potuto far inginocchiare tutto il mondo sotto il filo delle loro
spade”.
Vorremmo
mai punire degli ingenui bambini? Nel Giappone odierno sono puniti
con la pena di morte anche i minorenni...
E
poco dopo:
“I
giapponesi, a loro volta, commisero atrocità, ma sotto l'impulso
dell'esasperazione individuale o di un irragionevole fanatismo o di
isolati comandi e con l'attenuante che hanno sempre i perdenti
quando, traccheggiati come belve ferite, perdono il controllo della
ragione”.
Mi
pare il caso di far notare che i giapponesi commisero atrocità in
battaglia anche all'inizio delle ostilità (ostilità iniziate sempre
dai giapponesi, non dalle vittime), quando erano vincitori, e le
vittime erano spesso civili inermi.
Una
civiltà sommersa
Dopo
lo shintoismo ed il militarismo gli Usa smembrarono le zaibatsu delle
grandi famiglie che si erano arricchite con l'espansionismo
imperiale. Come al solito l'autore difende queste famiglie che,
secondo lui, erano contrarie alle varie guerre iniziate dal Giappone.
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