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domenica 21 luglio 2013

Gli dei hanno tradito



TITOLO: Gli dei hanno tradito
AUTORE: Mirko Ardemagni
CASA EDITRICE: Garzanti
PAGINE: 400
COSTO: 20€?
ANNO: 1948
FORMATO: 21 cm X 14 cm
REPERIBILITA': Reperibile su internet
CODICE ISBN:

Mirko Ardemagni faceva parte del corpo diplomatico italiano in Giappone, vi visse proprio nel periodo che racconta, quindi il suo scritto è pieno di aneddoti in gran parte vissuti direttamente (e spesso nell'alta società nipponica), ma è anche pregno di parecchi pregiudizi razziali e valutazioni storiche errate. I primi sono da ascriversi ad un alto livello di snobismo borghese/nobile verso il popolo, oltre ad un vero e proprio razzismo, che traspare da certi suoi giudizi sia sui giapponesi e, per esempio, sugli ebrei (che non sarebbero in alcun modo il soggetto di questo libro...). Inoltre si intuisce che l'autore fosse in primis un anticomunista viscerale, ed appena di meno antiamericano, ergo scrive tutto in funzione di questi suoi orientamenti politici. Le valutazioni storiche errate sono in parte da addebitarsi alla non conoscenza di alcuni fatti storici venuti alla luce negli anni e nei decenni successivi, ed in parte ad una grande mancanza di obbiettività sui fatti storici che avrebbe dovuto conoscere, sovente neppure citati.
Spesso ho avuto l'impressione che l'autore rimpianga un Giappone che era, probabilmente, il luogo ideale per un ricco nobil uomo con servitù, in quanto questa viveva per il suo padrone, servendolo e reverendolo come principio di vita.
L'autore passa da dei giudizi agiografici sul Giappone e i giapponesi ad dei veri propri insulti razziali, tanto che pare siano due gli autori...
Infine il tema del capitolo è spesso trattato un po' caoticamente, saltando da un argomento all'altro, da un aneddoto all'altro, senza un filo ben preciso.
Il libro resta interessante, ma è preferibile leggerlo se si ha una minima infarinatura dei fatti storici tra il 1900 e il 1948, ed anche sulla vita comune nella società giapponese dello stesso periodo, perché talvolta rimane il dubbio di leggere delle castronerie.
Uomini e vulcani
Il capitolo è dedicato all'ambiente: vulcani; tifoni; terremoti; boschi; giardini; etc.
Tante considerazioni sulle avversità e sui piaceri che la natura ha imposto ai giapponesi, e che sono la causa del loro diverso approccio verso l'ambiente e non solo. Il discorso si allarga presto anche ad altri argomenti, come la casa giapponese, da notare che nelle sue tante divagazioni l'autore afferma che il nome “ainu” sia un termine dispregiativo.

L'arcipelago delle termiti
Il tema è il sovrappopolamento del Giappone, iniziato raccontando di come gli americani stavano (libro scritto nel 1948) spendendo cifre astronomiche per rimpatriare i circa 6 milioni tra soldati e civili andati a colonizzare i territori conquistati. La cosa curiosa è che il concetto è scritto in modo tale da sembrare che gli americani stiano forzando il ritorno dei giapponesi da paesi in cui erano ben accetti... se vi fossero restati sarebbero stati uccisi dai vari eserciti nazionali... quindi gli Usa li stavano salvando.
Poco dopo si può leggere che uno dei motivi che mossero il Giappone alla guerra, cioè all'invasione di nazioni pacifiche, fu la sovrappopolazione. Di certo fu uno dei motivi, ma come spesso nel libro pare sia una giustificazione a tutto ciò che l'esercito imperiale commise.
Sempre commentando l'alto tasso demografico, sommato alla miseria del dopoguerra, si afferma che nonostante ciò “non si vedono neppure oggi mendicanti”. Forse l'autore non si recava mai dove c'erano i poveri, forse non ha mai visto un film di Kurosawa di quel periodo, e di certo non avrà potuto vedere il film d'animazione “Una tomba per le lucciole” di Isao Takahata.
E' spiegato che l'aumento della popolazione fu dovuta anche alle norme igieniche poste in atto per evitare le epidemie, e ci informa che l'usanza di togliersi le scarpe entrando in casa rientra in queste, e nacque per questo motivo anti epidemia.

La storia formatrice del carattere
Il capitolo comincia con varie considerazioni dell'autore sul rapporto che i giapponesi hanno con la morte, che lo porta ad asserire che una delle caratteristiche del popolo giapponese è il pessimismo, causa dell'elevato numero di suicidi. Tutto questo pessimismo è dato anche dal clima, inoltre il pessimismo cresce assieme al corpo del giapponese. Il bambino giapponese è l'emblema della felicità e della floridezza giovanile (forse non esisteva ancora la piaga dei suicidi minorili), ma ad un certo punto lo sviluppo fisico passa ad una precocissima decadenza fisica. E' indubbio per l'autore che i bambini giapponesi siano tra i più belli dell'umanità, tanto quanto sono brutti da adulti.
Riporto interamente alcune riflessioni dell'autore:
Come è convinzione scientifica che il colore delle diverse razze sia in rapporto diretto con la pigmentazione della pelle, all'influenza millenaria del sole e della latitudine, così non v'è dubbio che alla base del color giallo dei giapponesi, come del resto dei cinesi, stia una disfunzione epatica dipendente dal clima. Da questa disfunzione del fegato, che è diventata una conformazione naturale, consegue il carattere chiuso d questa gente, il rimuginare interno delle passioni, il covare segreto dell'odio e dell'amore”.
Quindi si passa ad una analisi storica riguardante l'assoggettamento da parte degli shogun verso gli imperatori, spiegando che la mancanza di sincerità dei giapponesi sia nata da secoli di usurpazione del potere da parte dei primi verso i secondi. Infatti era la norma fingere che comandasse l'imperatore mentre era lo shogun ad esercitare il potere reale, quindi l'abitudine a fingere si è trasferita a tutte le abitudini nipponiche.
Altra caratteristica dei giapponesi è la diffidenza, nata per evitare di essere uccisi per aver detto una parola di troppo ad uno sconosciuto di cui si ignorava lo status sociale. E' spiegato come i bagni pubblici furono istituiti dagli shogun allo scopo di spiare i sudditi, infatti durante la consuetudine del bagno era facile lasciarsi andare a confidenze personali, immediatamente ascoltate dalle spie shogunali.
Questo portò (riporto il testo) “alle conseguenze moderne: alla diffidenza estrema di cui si è armato il popolo giapponese, all'ermetismo del suo carattere, alla paure delle spie, all'abitudine di parlare senza guardare negli occhi il prossimo”.

Il dominio di sé
Secondo l'autore “il dominio di sé” dei giapponesi è spesso equivocato dagli occidentali, e nasce dalle turbolente epoche storiche passate, in cui l'essere cauti poteva salvare la propria vita. Una parola di troppo, specialmente se pronunciata di fronte ad una persona di cui no si fosse certi dell'attività e del rango, poteva costare la vita. E' da quel periodo storico che nasce l'abitudine linguistica nipponica di non fare mai affermazioni categoriche, ma sempre indeterminate. Ne consegue l'usanza di non dar mai torto al prossimo, non mostrare dissenso, ma anche fare in modo che il prossimo non sia mai messo in condizioni di dover esprimere dissenso. In questo contesto l'autore spiega l'importanza della riservatezza anche in campo amoroso. Tanto che il bacio era sconosciuto finché non arrivarono gli occidentali, e che le ragazze giapponesi restavano sgomente davanti al tentativo dei soldati americani (“bianchi e negri”...) di baciarle.


L'amore della regola
Per porre in atto “il domino di sé”, allo scopo di di impedire lo sfogo degli istinti ed avere una società armoniosa, è necessario il rispetto di regole.
Ad esempio di ciò ci si dilunga sulla cerimonia del te, raccontandone la storia e l'evoluzione. Nacque per mantenere svegli i monaci zen durante le litanie notturne: Verso il 1200 servì come surrogato per combattere il vizio dell'alcol. Durante le lotte feudali permetteva ai daimyo, tramite i suoi rituali, di riunirsi ed organizzare piani militari in segreto. In seguito assunse un aspetto più estetico e mondano. Infine (nel periodo in cui scrive l'autore) fu insegnata alle donne allo scopo di educarle a dominare i propri istinti e subordinarli all'osservanza di norme prestabilite.

La serietà della vita
Per spigare come e quanto siano seri i giapponesi nella vita l'autore inizia col raccontare l'impegno dei soldati nipponici ad essere combattenti terribili come il loro dio Hachiman, lo sforzo di “serietà” riuscì purtroppo fin troppo bene... Conseguenza diretta di ciò era affrontare la morte in guerra senza paura, anzi, ricercandola per il bene della nazione. Ad ulteriore esempio della “serietà” giapponese è portata ad esempio la consuetudine al suicidio rituale. In tutto il libero l'autore quasi idolatra i giapponesi e le loro usanze, poi, di colpo, passa a giudizi come questo:
I giapponesi, che sono il popolo al quale il resto del genere umano ha più costantemente irriso, hanno un'intelligenza indubbiamente al di sotto di quella dei popoli bianchi. Essi non hanno quella vivacità e quella prontezza che sono le caratteristiche delle genti mediterranee. La loro fantasia è circoscritta, le loro reazioni talmente ritardate da farceli apparire privi di riflessi... I giapponesi sono ottusi: Essi amano camminare con il paraocchi sui binari obbligati. Ma hanno, come non ha nessun altro popolo, volontà costanza, serietà di propositi, passione del dovere, spirito di sacrificio, amore della disciplina, istinto dell'ordine. Il comando che scende dall'alto non è soltanto obbedito, ma sentito come un precetto religioso, ascoltato come una divinazione”.
Nel raccontare uno dei suoi tanti aneddoti sulla serietà nipponica l'autore spiega che durante il terremoto di Tokyo del 1923 non ci furono rincari delle merci, nessun accenno al massacro dei cittadini coreani, accusati ingiustamente di sciacallaggio.
Nell'illustrare la serietà nipponica è spiegato il perché MacArthur “stia riuscendo” facilmente a sottomettere i bellicosi giapponesi: sono obbedienti.

La sete di sapere
Curiose, col senno di oggi, alcune considerazioni dell'autore sulla brama di sapere dei giapponesi e di accumulare informazioni, infatti una delle caratteristiche degli otaku è proprio quella di accumulare dati sull'argomento preferito (anime, manga e videogiochi). Oltre al fatto che gli esami in Giappone sono considerati da tutti unicamente nozionistici.
Scrive: “Sapere, sapere tutto di tutti, impadronirsi del segreto degli altri, essere sicuri di non sbagliare grazie ad una buona raccolta di informazioni, conoscere tutto quanto va conosciuto per proprio profitto, immagazzinare più che si può dentro se stessi e smaltire il meno possibile... Per essi il plagio non è affatto un'azione illegale: E' talmente una tendenza istintiva il copiare, che non riescono a capire il concetto della proprietà intellettuale, né il valore convenzionale dei brevetti.”
L'autore racconta che a Tokyo fu tenuta una mostra su Leonardo, che ebbe un successo strepitoso, il motivo fu che in una sala della mostra si spiegava che Leonardo era nato in Asia (argomentato dal professori universitari e commentato sui giornali), fatto a cui l'autore cercò in tutti i modi di opporsi. Questa non era una situazione limite, c'erano libri di scuola in cui si spiegava che Mosè era nato in Giappone, e che Cristo, seppur nato in Terra Santa, finì i suoi anni in Giappone.
Come per tutto il resto del libro dal tema iniziale si passa a varie considerazioni accompagnate da aneddoti. Si parla degli ainu segregati, del nazionalismo, del senso di superiorità nipponico, dei tassisti giapponesi che non chiedono informazioni pur non conoscendo un indirizzo. In tutta questa confusione si riesce comunque a percepire la riuscita opera di indottrinamento nelle scuole del popolo giapponese effettuata dal regime imperiale fascista.

Una grande confraternita
Nel capitolo si rappresenta la società giapponese come un grande monastero, secondo le cui regole si vive una vita frugale, rispettando gli ordini superiori, avendo sobrietà di costumi e pacatezza nei comportamenti. Anche quando, come nel 1945, nel giro di pochi giorni gli americani passarono da nemici mortali considerati pronti a massacrare l'intera popolazione, a salvatori della patria.
Sulle responsabilità della trasformazione di una intera società in soldati pronti ad uccidere ed uccidersi l'autore pare molto in imbarazzo. Passa dallo scaricabarile internazionale (colpa originaria degli Usa), a quello interno tra i vari gruppi sociali, oppure assolve in toto tutte le classi sociali, addebitando la colpa a sparute minoranze militariste, di cui non fa mai parte, curiosamente, la sua cerchia di amici nipponici. Ne è un esempio questo capitolo, secondo cui il regime nipponico fu generato dai militari e dai proletari, mentre l'aristocrazia e la borghesia giapponese era contraria... In pratica l'autore assolve la sua classe d'appartenenza, scaricando la responsabilità sui poveri, proletari, contadini e militari (che provenivano in gran parte dalla massa contadina).
Nella solita confusione aneddotica l'autore se ne esce con una perla che conferma la mia intuizione appena esposta: racconta che il barone Takahara Mitsui (signore dell'omonima zaibatsu e amico dell'autore) nel 1940 gli confessò che a casa sua mancava il carbone, nonostante la Mitsui possedesse il 90% del carbone dell'impero. Tutta la sua famiglia soffriva il freddo per l'inverno, quindi l'autore gli offrì di fargli arrivare del carbone dal suo fornitore... il tutto per dimostrare quanto fosse etico il barone Mitsui, che non approfittava dei suoi beni, peccato per i morti che il suo impero commerciale causò.

Un mondo a rovescio
Il classico capitolo sulle contraddizioni, superstizioni ed eccentricità dei giapponesi rispetto a noi occidentali, che poi sono le osservazioni che l'autore riporta (sia in positivo che in negativo) in tutto il libro.

I quattro arrembaggi all'Impero Eremita
Anche questo capitolo mi ha lasciato perplesso, in parte per le informazioni date, ed in parte per ciò che vuole sottintendere. E' spiegato che il Giappone non ha mai invaso altre nazioni fino alla fine del 1800, anzi, che regolarmente nella sua storia ha subito (un po' come tutti i paesi del mondo...) tentativi di invasione, volendo porla come nazione vittima. Mi pare strano che l'autore, per esempio, non sapesse delle ripetute invasioni della Corea prima del 1800.
I quattro arrembaggi subiti dal Giappone furono:
Quando nel 600 DC il re di Corea Pakche inviò in Giappone ambascerie che introdussero il buddismo (quindi un'invasione culturale, non armata);
Nel 1274 quando Kubilai Khan tentò per due volte di invadere il Giappone;
Il terzo fu l'arrivo dei missionari cristiani e commercianti portoghesi nel 1600 (altro attacco non militare);
Il quarto fu l'arrivo delle navi nere del commodoro Perry nel 1853.
Addirittura l'autore incolpa gli Usa per ciò che avvenne durante tutta la prima metà del 1900, perché con l'atto violento di Perry avevano “inoculato” il germe del futuro conflitto del pacifico. E qui si torna al tentativo di deresponsabilizzare il Giappone.

Oltre i confini tutto è ammesso
Con l'arrivo delle navi nere di Perry si scatenò il ciclone che spazzò via il bakufu shogunale, sostituito dal ritorno al potere dopo 7 secoli dell'imperatore Meiji. Capitolo piacevole, pieno di racconti su quei grandi sconvolgimenti sociali che portarono alla modernizzazione forzata di un intero popolo. Sono raccontate anche le guerre contro la Cina (la prima) e la Russia, e l'inizio dell'espansionismo nipponico, fino alla seconda guerra mondiale.

La grande illusione
In questo capitolo sono analizzate le cause della disastrosa guerra contro gli Usa. Valutando come primo errore, di una lunga serie, l'ulteriore espansione in Manciuria del 1931, che mise la nazione apertamente contro gli interessi di Inghilterra ed Usa.
Secondo l'autore se il Giappone si fosse fermato alla Manciuria cinese, trasformandola in baluardo anti sovietico, forse le potenze anglo-americane avrebbero anche potuto accettare il dato di fatto, ma il Giappone non seppe fermare la sua sete di conquiste.
In questa analisi, sempre tendente a giustificare l'espansionismo nipponico, si nota la solita litania sull'imperatore pacifista, e torna di nuovo l'idea che la borghesia nipponica fu vittima delle scelte “della massa ignorante del popolo e dell'esercito”. Come se la ricca borghesia nipponica non ebbe i suoi lauti guadagni dall'invasione della Manciuria.
Spesso l'autore chiama il popolo “ignorante”, e la colta borghesia ed aristocrazia che seguì i vari Hirohito, Mussolini ed Hitler cosa furono? Non certo ignoranti, furono avidi e vili.
Sono analizzati i contrasti tra la fazione giapponese che spingeva verso l'espansione a nord (contro i sovietici, appartenenti all'esercito) e quella che auspicava l'espansione a sud (contro gli anglo-americani, appartenenti alla marina).
E' brevemente accennata l'azione di spionaggio a favore dei sovietici ad opera di Sorge (italianizzato in Riccardo), incredibilmente non si accenna alla figura più importante di questo spionaggio: il giapponese Ozaki Hotsumi.
La ricostruzione storica delle fasi prima dell'attacco a Pearl Harbor sono molto filo nipponiche, forse per la mancanza di documenti storici affidabili quando fu scritto il libro.

Amok
L'autore racconta le misere condizioni di vita della popolazione nipponica dal 1943 alla fine della guerra, oltre allo scioccante passaggio dall'euforia delle continue vittorie a catena alla depressione popolare per le ritirate (seppur non ammesse) continue.
Raccontando delle privazioni del personale diplomatico (recluso dopo la resa italiana, e qui si dovrebbe fare una differenziazione tra gli italiani che aderirono alla Repubblica di Salò ed ebbero un trattamento umano, e quelli, come Maraini e la sua famiglia, che non lo fecero, e furono trattati come bestie dai carcerieri giapponesi...) narra un episodio riguardante Fosco Maraini:
Unico integrativo alimentare degli internati civili, sufficiente per non morire, erano le lumache che andavano cacciando sotto la pioggia come sonnambuli alle prime luci dell'alba, attorno alla casa. Uno di essi, Fosco Maraini, studioso bizzarro e poeta geniale che alcuni anni prima era andato a vivere in mezzo agli Ainu nell'estremo nord dell'arcipelago, un giorno, al colmo dell'esasperazione e per insegnare ai giapponesi come si fa a trattare il prossimo, decise di dare da mangiare un po' di se stesso ai secondini. E amputatosi con un colpo di accetta il dito mignolo della mano sinistra, proprio come fece il capo del Dragone Nero, lo lanciò al capoguardia dicendogli: “Ecco, fatevene un sukiaki!”, poiché il sukiaki è la carne ai ferri di cui gli indigeni vanno ghiottissimi.
Parve che dovesse succedere il finimondo al campo quella volta, ma il gesto impressionò talmente le guardie che cominciarono a pensare che tutti gli italiani potessero essere come il venerato Toyama. E il trattamento materiale e morale migliorò considerevolmente”.
Quindi l'autore passa a raccontare, e forse avrebbe fatto meglio a soprassedere, sulle privazioni di un'altra parte dei diplomatici, di cui lui era parte, trasferiti nella località montana di Karuizawa. Privazioni minime rispetto alle condizioni di vita del popolo giapponese e di altri internati, ma comunque non consuete per quei nobili e borghesi europei. In questa esposizione si dilunga assai, il tutto stride con le reali condizioni di vita del resto della popolazione...
Il capitolo si conclude con il racconto dei fatti accaduti nell'agosto del 1945.

Tokio: primo e dopo
Viene raccontata come fluiva la vita a Tokyo prima e dopo la guerra. Le differenze tra la Tokyo imperiale anti americana e quella democratica filo Usa, dall'architettura, alla viabilità, passando per i mezzi pubblici, i negozi, i luoghi di divertimento.

La lotta contro lo scintoismo
Nel raccontare i successi di MacArthur, e di quanto i giapponesi gli furono grati, l'autore si sofferma su ognuna delle prime tre misure (esposte negli altri due capitoli finali) che egli prese per cambiare i giapponesi: soppressione dello shintoismo come religione di stato; abolizione del militarismo; scioglimento delle zaibatsu.
Il mito della discendenza diretta dell'imperatore dalla dea del sole Amaterasu, e quindi di tutto il popolo giapponese (unico popolo al mondo), fu sfruttata dai nazionalisti per giustificare il diritto dei giapponesi ad invadere e comandare le altre nazioni asiatiche, e non solo. Un altro aspetto della superiorità di una “razza” rispetto alle altre.

La fine del militarismo
All'inizio del capitolo è raccontato che in principio lo spirito con cui gli americani entrarono nel Giappone sconfitto fu di vendetta. I soggetti principali di questa vendetta erano Hirohito e la famiglia imperiale, tra le tante cause annoverate dall'autore ce n'è una assai particolare (riporto il testo):
...dalla sobillazione degli ebrei ad effettuare rappresaglie e a compiere persecuzioni...”. No comment.
Il capitolo è incentrato sull'opera di MacArthur atta ad estirpare il militarismo, uno degli aspetti atavici dei giapponesi. E' raccontata la smobilitazione dei soldati nipponici e il disarmo dell'esercito, avvenuta fin con l'obbligo di consegnare le spade da samurai che tante famiglie avevano ereditato dagli avi.
In questa spiegazione l'autore si lancia in considerazioni ormai divenute consuete alla fine del libro:
I militaristi indigeni non furono affatto criminali intenzionali. Essi furono bambini ingenui, che a forza di vivere chiusi in se stessi e di rimasticare a memoria le vecchie lezioni relative allo loro marziali virtù si esaltarono al punto da credere che avrebbero potuto far inginocchiare tutto il mondo sotto il filo delle loro spade”.
Vorremmo mai punire degli ingenui bambini? Nel Giappone odierno sono puniti con la pena di morte anche i minorenni...
E poco dopo:
I giapponesi, a loro volta, commisero atrocità, ma sotto l'impulso dell'esasperazione individuale o di un irragionevole fanatismo o di isolati comandi e con l'attenuante che hanno sempre i perdenti quando, traccheggiati come belve ferite, perdono il controllo della ragione”.
Mi pare il caso di far notare che i giapponesi commisero atrocità in battaglia anche all'inizio delle ostilità (ostilità iniziate sempre dai giapponesi, non dalle vittime), quando erano vincitori, e le vittime erano spesso civili inermi.

Una civiltà sommersa
Dopo lo shintoismo ed il militarismo gli Usa smembrarono le zaibatsu delle grandi famiglie che si erano arricchite con l'espansionismo imperiale. Come al solito l'autore difende queste famiglie che, secondo lui, erano contrarie alle varie guerre iniziate dal Giappone.


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