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domenica 2 giugno 2013

Hikikomori, narrazioni da una porta chiusa


TITOLO: Hikikomori, narrazioni da una porta chiusa
AUTORE: Carla Ricci
CASA EDITRICE: Aracne
PAGINE: 194
COSTO: 13€
ANNO: 2009
FORMATO: 21 cm X 14 cm
REPERIBILITA': Reperibile su internet
CODICE ISBN: 9788854829022

Questo è il terzo saggio (secondo di Carla Ricci) in italiano che affronta il fenomeno sociale hikikomori, direi che è il più utile per capirne, oltre alle motivazioni, possibili vie d'uscita. Va comunque letto, secondo me, dopo il precedente libro di Carla Ricci.
Le motivazioni che portano un/una giovane (ma ci sono anche molti soggetti adulti) a diventare o fare hikikomori sono di carattere sociale: debolezza nello stringere relazioni, insicurezza, perdita dell'impiego, vergogna, scarsità di motivazioni.
Oppure ci sono quelle di carattere scolastico: bullismo, competizione scolastica, fallimento negli esami, rifiuto della scuola.
Ma anche quelle famigliari: pressione per raggiungere elevati livelli di istruzione, difficoltà di relazione, padre assente, madre iperprotettiva.
Infine ci sono le problematiche di carattere psicologiche (depressione, schizofrenia etc), ma sono minoritarie rispetto alle cause sopra riportate.
Secondo Ogino Tatsushi il soggetto che fa hikikomori soffre di un forte complesso di inferiorità, non riescono a stabilire rapporti con il prossimo, in quanto avvertono la gente come nemica, perché hanno la certezza che non li possa capire. Sempre secondo Tatsushi sono tre le cause di hikikomori: conformismo della società giapponese, pressione del sistema educativo, problemi di comunicazione tra genitori e figli.

Questo secondo lavoro di Carla Ricci sugli hikikomori è nato da un'attività diretta in Giappone, di studio e analisi del fenomeno, in rapporto con terapeuti, esperti, famigliari e gli stessi hikikomori. Inoltre l'autrice, parlando il giapponese, instaura un rapporto diretto con tutte queste figure.
Stando a stretto contatto con i soggetti e l'ambiente giapponese l'autrice nota acutamente che l'atto di un hikikomori di chiudere una porta dietro a se per rinchiudersi presuppone un significato diverso da quello che avrebbe in occidente. In Giappone l'uso delle nostre porte occidentali sono relativamente recenti, e non fanno parte della cultura giapponese, dove sono le pareti divisorie mobili a delineare gli spazi. Queste pareti divisorie più che chiudere gli ambienti hanno lo scopo di aprirli, e non sono dotati di serratura. Nelle vecchie case giapponesi c'era solitamente un solo ambiente con una porta “occidentale” con serratura, la stanza chiamata “zashikiro” (la stanza prigione in tatami). In questa zashikiro, fino alla seconda guerra mondiale, era legale rinchiudere per tutta la vita i parenti malati di mente. Quindi l'azione di un hikikomori di “chiudersi” è un atto “sgarbato”, verso il quale il resto della famiglia non sa cosa fare e aspetta, ma l'attesa della famiglia genera nel hikikomori rabbia verso chi non sta comprendendo il suo atto di ribellione/protesta/auto salvaguardia, e quindi si generano ulteriori problematiche di carattere psicologico.

Nel primo capitolo si racconta la storia di Fumiko, una 28enne, e del suo stato di depressione e problematica famigliare, ma non è lei che fa hikikomori, bensì il padre. Viene spiegato come in Giappone la depressione non porta il soggetto a considerarla una malattia da curare. Usando termini come “il mio ki è affondato” (o bloccato/pesante/chiuso etc) si evita di considerare la depressione una patologia, anche a causa del modo di pensare giapponese che porta a dire “shikataganai” (non ci si può far niente, non c'è niente da fare). Espressione che non va valutata nell'ottica occidentale della rassegnazione, ma in relazione al ki.

Il secondo capitolo parte dalle dimissioni del primo ministro Abe nel settembre 2007 per fare alcune considerazioni sulla vergogna in Giappone. Le dimissioni di Abe da alcuni furono considerate una fuga dalle responsabilità, quindi un atto che porta vergogna, ma Abe ebbe un comportamento debole, cioè la fuga/dimissione, come gli hikikomori, invece di scegliere il suicidio per emendare la propria vergogna. Partendo da questo spunto di pensiero popolare l'autrice analizza il rapporto tra vergogna e suicidio/hikikomori. Il suicida espia la sua colpa, l'hikikomori trova nella reclusione un riparo a quel sentimento insopportabile.

Il terzo capitolo si sofferma sull'angoscia dei sararimen, che si trasforma poi in panico, per il viaggio in treno che li porterà ad un'altra interminabile, dura ed alienante giornata di lavoro. Questo panico da treno porta a fare hikikomori e, talvolta, al suicidio.

Il quarto capitolo racconta l'unico incontro tra l'autrice e Isao, un 30enne che fa hikikomori da 15 anni.

Il quinto capitolo illustra la “cultura del segreto”, cioè himitsu, legato ai concetti di “ura” (ciò che sta dentro ed è segreto) e “omoe” (ciò che sta fuori e di cui si può parlare). Un segreto, “himitsu”, può essere sia una informazione che si vuole celare che avere a che fare con la sfera personale. La famiglia non è che si disinteressa del famigliare che fa hikikomori, ma ha rispetto per il suo “himitsu” (segreto), del suo mondo. Questo porta al modo di dire “nakatta koto ni suru”, “ciò che non vogliamo sentire o vedere facciamo in modo che non esista affatto”, che poi era il ragionamento che stava alla base del zashikiro.
Chi fa hikikomori si reclude per nascondere il suo “segreto”, e nessuno della famiglia si oppone, in ossequio al rispetto per il suo “himitsu”. Ma la società attua un comportamento duplice, da un lato accetta il suo segreto (e quindi l'hikikomori), e dall'altro disprezza la fuga che la persona compie, una fuga dalla produttività, che implica l'accusa di parassitismo. Si stima che nel 2030, quando gli attuali hikikomori raggiungeranno l'età della pensione, ci sarà una generazione di nullatenenti, non avendo mai pagato le tasse. Oltre al problema economico nazionale c'è il baratro in cui cadono le famiglie giapponesi che hanno un hikikomori. Le famiglie si vergognano della loro situazione, quindi il professore Saito Tamaki ha redatto un manuale di 500 pagine con le risposte alle loro domande riguardo alla situazione in cui si trovano. L'autrice ha tradotto le domande di questo manuale per far capire il dramma di queste famiglie.

Il sesto capitolo ci informa su una nuova figura terapeutica, la “rental onesan”, ovvero la “sorella maggiore in affitto”. In Giappone a tutti è assegnato un ruolo sociale, persino agli homeless ne è riconosciuto uno, agli hikikomori no, la società giapponese non li sa ancora inquadrare. Il ruolo sociale è così importante che in famiglia non ci si chiama per nome, ma per il ruolo che in essa si svolge, quindi madre, padre, sorella maggiore, sorella minore, fratello maggiore, fratello minore etc. Un fratello maggiore, in base al suo ruolo, ha già u percorso di vita organizzato e delle responsabilità precise. Infatti l'80% dei giovani hikikomori sono figli unici o primogeniti. La “rental onesan” non deve essere obbligatoriamente più grande dell'hikikomori, ed il suo ruolo può essere utile in soggetti che si sono auto reclusi da poco tempo, 10/18 mesi. Questa nuova figura nasce nel 2003 nel centro New Status, in cui gran parte del personale è formato da ex hikikomori. In tutta Tokyo ci sono solo una trentina di rental onesan, esse non sono necessariamente delle terapeute, ma persone che decidono di dedicarsi agli hikikomori. Il loro compito/ruolo è di instaurare un rapporto con chi fa hikikomori (fase che può durare settimane o mesi, oppure fallire), non pongono domande, non forzano, attendono, anche dietro la porta chiusa. Se accettate in stanza rimangono anche in silenzio per ore e poi tornano a casa. Sarà il soggetto a decidere cosa fare, se uscire di casa, ed a quel punto la rental onesan sarà lì con lui.

Il settimo capitolo illustra la strada intrapresa da un terapeuta, Takeshi Watanabe, per fa uscire chi fa hikikomori dalla sua auto reclusione, la musica. Watanabe spiega come, nonostante sia interpellato dai genitori, si ritrovi a dover superare due muri: la porta chiusa del soggetto e la barriera eretta dai genitori. Infatti questi, inconsciamente, si sentono violati nel loro privato da un estraneo. In base all'esperienza di Watanabe il 30% degli hikikomori ricorda il trauma che lo ha portato a rinchiudersi, mentre circa un altro 30% non rammenta il motivo specifico che ha causato la sua decisione. La terapia da seguire per questi due gruppi è differente. Inoltre ha riscontrato che le ragazze hikikomori son in aumento, e di una fragilità estrema, e con le ragazze la sua terapia musicale è meno efficace. La terapia musicale di Watanabe è basata su un procedimento di catarsi, se l'hikikomori è in preda ad una forte tensione la musica sarà forte, se è triste la musica sarà triste. Anche Watanabe, una volta riuscito a stabilire un contatto con chi fa hikikomori, evita le domande, perché quando l'hikikomori accetta il terapeuta di norma non rimane in silenzio. Un altro 30% dei soggetti non vive totalmente recluso, quindi con loro la terapia è differente.

Nell'ottavo capitolo è raccontato il percorso terapeutico di Masuko, un paziente di Watanabe, visto dal punto di vista del terapeuta. Masuko iniziò a fare hikikomori a 16 anni, e la terapia con Watanabe durò 10 anni! Alla fine, oltre all'impegni di Watanabe e alla sua terapia musicale (musica che era la passione di Masuko), fu un cane ad obbligare l'ormai ex ragazzo ad uscire di casa, un cane regalatogli dalla madre.

Nel nono capitolo è lo stesso Masuko, dopo 7 anni dalla fine della terapia con Watanabe, a raccontare il perché di quei 10 anni di reclusione e come aveva vissuto quegli ultimi 7 anni di vita normale, il tutto raccontato direttamente all'autrice.

Il decimo capitolo è un testo dello stesso Watanabe sul suo mestiere di terapeuta con gli hikikomori, tradotto dall'autrice. I contenuti sono molto interessanti, riporto un piccolo sunto non esaustivo dell'esperienza di Watanabe.
In una famiglia con un hikikomori la situazione precipita in una escalation di rabbia. Il padre mostra la sua rabbia allontanandosi. La madre, nel tentativo di proteggere il figlio dal padre, mostra la sua rabbia disperandosi. La famiglia non ne parla coi parenti. Infine tutti ricevono una pressione insopportabile, l'hikikomori dai genitori, i genitori dai parenti. La parola hikikomori è formata da due parole: hiko e komoru. “Hiko” significa “ritirarsi”, “l'assicurarsi un posto sicuro”. Mel termine “komoru” c'è l'idea del “chiudersi” (la spiegazione del saggio è molto più articolata, ed è comprensiva anche dei relativi ideogrammi). Ci sono tre tipi di hikikomori: withdrawn; shut in; retreat (nel aggio le 3 definizioni sono comprensive di spiegazioni dettagliate). Gli stati d'animo di un hikikomori sono essenzialmente tre: l'ansia di non sapere cosa fare; la rabbia di non venir capiti; il senso di colpa perché non ci si sta scusando dei problemi creati. Ci sono cinque aspetti riguardanti gli hikikomori (spiegati dettagliatamente nel saggio): comunicazione; approccio verso la vita; inversione del tempo; creatività; famiglia. Sullo sfondo della situazione hikikomori ci sono tre cause sociali (tutte be, spiegate nel saggio): il crollo della famiglia; il crollo della natura; il crollo della vera comunicazione. Watanabe spiega come si struttura la visita ad un hikikomori, e come fa a procedere nella terapia.

Il capitolo undici contiene un'intervista (o racconto) di Carla Ricci alla madre di un hikikomori di 39 anni, che lo è da 19 anni. Una testimonianza interessantissima, in cui l'autrice analizza il rapporto madre-figlio nella società giapponese.

Nel dodicesimo capitolo Carla Ricci racconta il suo incontro casuale con Kyoko, una ragazza anoressica che fa hikikomori. Il racconto è molto toccante, ed è anche un'occasione per analizzare il rapporto degli hikikomori col cibo.

Il capitolo numero tredici vede Carla Ricci interpellata da una madre a proposito della figlia 25enne Akina, sofferente di depressione, che nei periodi più brutti si rifugia in hikikomori. Quindi Akina non è perennemente reclusa, ma alterna fasi di hikikomori a periodi in cui lavora, seppur lavori saltuari, chiamati in Giappone “baito”. Dal primo incontro nasce una relazione via mail, in cui Akina le racconta il suo vissuto quotidiano, lavorativo o di auto reclusione. Questa vicenda è anche uno spunto per affrontare il mondo del lavoro fatto di “lavoretti” o “baito”. Il genere di lavoro che chi esce da hikikomori inizia a svolgere per primo, quindi un tipo di lavoro indispensabile per una terapia.

Il 14esimo capitolo racconta la storia di un 60enne e del suo tojikomori, uno stato di hikikomori in cui il soggetto sceglie di stare da solo, senza il supporto di nessuno, e senza che affiorino i sensi di colpa tipici degli hikikomori. Ryou, il protagonista di questo fatto, racconta del suo malessere, che chiama “kokoro-noyami”, “buio del cuore”.


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